Li trovi nei luoghi dove nessuno vuole andare. Non indossano uniformi, non hanno mezzi ufficiali, e spesso agiscono in silenzio. Sono i volontari del volontariato antirazzista in Italia, quelli che portano un pasto caldo, una parola, una mano tesa dove lo Stato ha smesso di guardare. Nei ghetti, nelle baraccopoli, nei quartieri ai margini, nelle campagne dove si raccoglie frutta e si muore per un colpo di sole a 42 gradi.
È una rete silenziosa, frammentata, ma tenace. E soprattutto reale. Non vive di grandi dichiarazioni ma di gesti quotidiani. Come quello di Luciana, pensionata di 69 anni, che tre volte alla settimana cucina chili di pasta e li porta in una baracca alla periferia di Foggia, dove vivono decine di braccianti africani. “Non ci vado per carità cristiana, ma per rabbia civile”, dice. “Perché vedere esseri umani trattati peggio degli animali mi fa vergognare di questo Paese.”
Nel sud Italia, soprattutto in Puglia e Calabria, il volontariato antirazzista è spesso l’unica presenza stabile nei ghetti agricoli dove vivono migliaia di migranti sfruttati. Qui si parla di vere e proprie baraccopoli, spesso gestite da caporali, con zero servizi, zero acqua potabile, zero diritti. A San Ferdinando, Rosarno, Borgo Mezzanone, la dignità si misura con una doccia a settimana e con il lusso di avere una scarpa senza buchi.
Volontariato antirazzista in Italia: una rete di resistenza nei luoghi dimenticati
I volontari arrivano con furgoni rattoppati, pieni di vestiti, generi alimentari, coperte. A volte si tratta di parrocchie che decidono di agire anche contro la linea ufficiale. Altre volte sono attivisti laici, collettivi, gruppi informali. A volte sono gli stessi migranti, che aiutano i nuovi arrivati. In ogni caso, non c’è alcun compenso. C’è solo la volontà di esserci.
A raccontare queste realtà ci aiuta anche la testimonianza raccolta nell’articolo “Violenza istituzionale sui minori stranieri non accompagnati”, dove i volontari supplivano alle carenze dello Stato, diventando un punto di riferimento per giovani lasciati soli. Ma la situazione nei campi agricoli è persino più brutale, perché qui le condizioni materiali sono estreme e disumane.
Un volontario di Campobello di Mazara, in Sicilia, racconta: “Quando arrivo, non porto solo viveri. Porto un saluto, uno sguardo, qualcosa che dica: io ti vedo.” Si chiama Karim, è italiano, figlio di immigrati tunisini. Ha 28 anni e lavora in un’ONG locale. La notte dorme in macchina per restare nei pressi del campo, pronto in caso di emergenza. Dice: “Qui nessuno viene. I politici ci vengono solo se ci scappa il morto. Noi ci veniamo ogni giorno.”
Nel nord, a Torino e Milano, il volontariato antirazzista si concentra soprattutto nelle stazioni, nei centri di transito, nelle occupazioni abitative. Giovani migranti in viaggio verso la Francia, donne con bambini piccoli senza documenti, famiglie respinte dai circuiti ufficiali dell’accoglienza. Anche qui, il volontariato sopperisce a uno Stato assente.
A Torino, il gruppo “Binario 95” è attivo ogni sera vicino alla stazione Porta Susa. Preparano sacchetti con cibo, mascherine, saponi. Ascoltano storie, orientano. Alcuni volontari sono studenti universitari, altri insegnanti, alcuni ex senzatetto. A Milano, c’è il gruppo “Mutuo Soccorso Migranti”, che offre consulenze legali, ospitalità temporanea, traduzioni. Sono centinaia i migranti che ogni mese ricevono supporto grazie a queste reti.
Ciò che colpisce è la continuità. Questi volontari non arrivano una volta per poi sparire. Creano relazioni, mantengono contatti, si fanno conoscere nei luoghi dove operano. In un campo rom vicino a Firenze, una rete di famiglie e maestre ha avviato un doposcuola autogestito. Lì, bambini e bambine ricevono aiuto per i compiti, giocano, ascoltano fiabe. La parola “integrazione” qui non è uno slogan, ma una realtà viva.
Molti di questi progetti non ricevono alcun finanziamento. Sono sostenuti da piccole donazioni, autofinanziamenti, raccolte spontanee. E spesso sono osteggiati. A Rosarno, più volte i volontari sono stati minacciati. A Borgo Mezzanone è stato incendiato un furgone. In alcuni quartieri, le forze dell’ordine hanno chiesto documenti a chi distribuiva cibo, accusandoli di “assembramento non autorizzato”.
Nonostante questo, i volontari continuano. Perché sanno che smettere significherebbe lasciare migliaia di persone nell’abbandono totale. Sanno che il volontariato antirazzista in Italia è una delle ultime barricate contro la disumanizzazione.
Le reti si moltiplicano. A Bologna, alcuni centri sociali hanno creato un “punto di ascolto migrante” in un’ex biblioteca. A Roma, nel quartiere San Lorenzo, un gruppo di donne ha organizzato un progetto chiamato “Un tetto per tutti”, che ha accolto decine di famiglie senza casa, molte delle quali provenienti da contesti razzisti o da sgomberi forzati. A Genova, il gruppo “Braccianti Fuori dal Silenzio” dà voce a lavoratori sfruttati, raccoglie denunce, promuove campagne sui diritti.
Tutto questo è volontariato. Ma è anche militanza. È scelta politica, nel senso più profondo del termine: prendere posizione, stare dalla parte di chi è calpestato. È lo stesso spirito che anima il sito Antirazzismo.com, che ha raccontato anche nella categoria “Discriminazioni e Barriere” come in tanti casi il razzismo si annidi nei dettagli della vita quotidiana. Il volontariato, allora, è l’azione che rompe quella catena silenziosa.
Anche i social stanno diventando strumenti per queste reti. Attraverso post, storie, dirette, i volontari raccontano le condizioni delle baraccopoli, denunciano l’abbandono istituzionale, promuovono raccolte fondi. Il linguaggio è diretto, senza mediazioni. “Oggi siamo andati a distribuire acqua. 3 litri per 120 persone. Sì, avete letto bene. E siamo nel 2025”, scrive un volontario di Latina. Basta quello per capire tutto.
Il futuro di queste reti è incerto, ma la loro esistenza è già una vittoria. Sono un segno di civiltà, in un Paese che spesso preferisce girarsi dall’altra parte. Sono la dimostrazione che l’antirazzismo non è solo teoria, ma pratica quotidiana. Sono la prova che la solidarietà, anche se non fa notizia, esiste. Ed è più viva che mai.