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domenica, 22 Giugno,2025

Accoglienza dal basso: chi apre la propria casa a chi è stato rifiutato da tutti

Non si tratta di progetti istituzionali. Non ci sono fondi europei, né protocolli firmati. L’accoglienza dal basso è fatta di case private, divani condivisi, stanze offerte da chi ha poco ma ha deciso di non voltarsi dall’altra parte. È una rete fragile ma determinata, costruita su fiducia, empatia e resistenza civile.

Nel cuore di Genova, Lucia ha 63 anni e vive in un appartamento di 50 metri quadri. Da tre anni, ospita a rotazione ragazzi appena usciti dai centri di accoglienza, spesso espulsi per cavilli burocratici. “La prima volta è stato Mamadou. Aveva 19 anni, nessun posto dove andare, piangeva. Non ho pensato troppo. Gli ho detto: ‘Resta qui finché non trovi qualcosa’. È rimasto sei mesi. Ora lavora a Milano. Mi chiama ogni domenica.”

Lucia non è un’eccezione. In tutta Italia, migliaia di persone stanno aprendo le proprie case per offrire un tetto a chi è stato escluso dai sistemi ufficiali. Non lo fanno per carità, ma per giustizia. Spesso sono persone comuni, famiglie, studenti, anziani, attivisti. A volte si conoscono tramite il passaparola, altre volte attraverso reti informali, parrocchie, collettivi o associazioni.

A Bologna, il progetto “Una Stanza per Tutti” è nato da una chat tra docenti universitari e operatori sociali. Oggi conta oltre 60 famiglie che si alternano nell’accogliere migranti senza dimora, offrendo ospitalità temporanea, orientamento, ascolto. Non ci sono rimborsi. Chi partecipa, lo fa perché crede che nessuno debba dormire per strada.

L’accoglienza dal basso è spesso l’unica possibilità concreta per le persone escluse. Parliamo di minori diventati maggiorenni che escono dai centri senza alcuna rete, di richiedenti asilo respinti che fanno ricorso e restano mesi in un limbo, di persone regolarizzate ma senza lavoro né alloggio. In molti casi, dopo anni nei circuiti ufficiali, si ritrovano per strada. Ed è lì che trova spazio questa forma alternativa di accoglienza: umana, immediata, orizzontale.

A Napoli, una famiglia senegalese ospita nella propria casa tre ragazzi del Bangladesh. “Non li conoscevamo. Ma sappiamo cosa vuol dire arrivare qui e non avere nessuno”, racconta Oumar, il capofamiglia. “Abbiamo chiesto ai vicini se avevano un materasso da darci. Nel giro di due giorni, avevamo montato tre letti.”

L’accoglienza dal basso in Italia: una rete di umanità fuori dai riflettori

In molti casi, l’accoglienza si trasforma in una vera e propria famiglia allargata. I pasti vengono condivisi, si festeggiano i compleanni, si aiutano i bambini nei compiti. A Torino, un pensionato ha deciso di ospitare una donna con due figli piccoli, cacciata da un centro perché “non compatibile” con la struttura. “Ho una casa grande e vivo da solo. Dovevo davvero aspettare che qualcuno me lo chiedesse per fare la cosa giusta?”

Nel nostro articolo “Solidarietà tra migranti: quando chi ha sofferto diventa il primo a tendere la mano”, abbiamo raccontato quanto spesso siano gli stessi migranti a sostenersi reciprocamente. Ma nell’accoglienza dal basso, ciò che colpisce è anche la disponibilità di chi non ha vissuto direttamente quel tipo di esperienza e sceglie comunque di esporsi, di mettersi in gioco, di condividere spazi, storie, fatiche.

A Roma, il collettivo “Casa Aperta” ha attivato un sistema di accoglienza diffusa in diversi quartieri. Ogni famiglia ospitante riceve un supporto non economico ma logistico: consulenza legale, mediazione culturale, assistenza medica. Il tutto organizzato in modo volontario. “Cerchiamo di creare una comunità di accoglienza, non solo ospitalità. Perché vivere insieme significa anche affrontare conflitti, imparare, cambiare.”

Ci sono anche esperienze fuori dalle grandi città. A Cuneo, una coppia di insegnanti ha trasformato la propria casa in una piccola comunità familiare, ospitando sei giovani migranti che lavorano come stagionali. “Cucinano loro, puliscono, si autogestiscono. Noi offriamo lo spazio, loro portano la vita”, racconta Anna. “Ci hanno insegnato cosa significa davvero condividere.”

L’accoglienza dal basso non è sempre facile. Ci sono barriere linguistiche, differenze culturali, situazioni emotive complesse. Ma chi la pratica dice che è anche un’occasione per crescere, per imparare, per uscire dalla propria bolla. “Mi hanno insegnato più loro in tre mesi che dieci anni di scuola”, dice Giulia, 26 anni, studentessa di Giurisprudenza, che ha ospitato due sorelle somale per tutta l’estate.

A volte, però, arrivano anche i problemi. Alcuni comuni ostacolano queste forme di ospitalità, accusandole di “favorire l’immigrazione illegale” o di “aggirare le regole dell’accoglienza”. In un piccolo paese del Lazio, una famiglia è stata minacciata dopo aver accolto un giovane tunisino. “Ci hanno detto che dovevamo pensare ai nostri prima. Ma lui ora lavora nel forno del paese. I nostri chi?” dice ironica la madre.

Ci sono anche forme di accoglienza dal basso più strutturate, come il progetto “Refugees Welcome”, attivo in molte città italiane, che abbina famiglie e migranti in base a interessi comuni e disponibilità. Ma anche fuori da questi circuiti, l’accoglienza spontanea è diffusa. E cresce ogni giorno.

Nel nostro articolo “Cucine solidali antirazziste: come il cibo diventa resistenza nelle periferie”, abbiamo visto come la condivisione dello spazio e del tempo possa abbattere barriere profonde. Nell’accoglienza dal basso succede lo stesso: aprire casa propria è un gesto profondamente politico, che rovescia la logica dell’esclusione.

In molte di queste case, nascono legami duraturi. Alcuni ragazzi restano mesi, altri anni. Alcuni diventano parte della famiglia, altri ripartono, ma portano con sé un’esperienza che non dimenticheranno mai. “Per anni ho vissuto nei centri, e non ricordavo più com’era vivere in una casa vera, dove si cena insieme, dove si chiude la porta senza paura”, racconta Ayoub, oggi operatore sociale.

La vera forza dell’accoglienza dal basso è che umanizza entrambe le parti. Chi accoglie smette di avere paura. Chi è accolto smette di sentirsi invisibile. È un’azione semplice ma potente, che mostra che un altro modo di vivere è possibile.

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