Nessuno se lo aspettava davvero. Eppure è accaduto. È iniziato tutto in un istituto tecnico di Bologna, quando una professoressa ha letto in classe un articolo su un’aggressione razzista avvenuta fuori da una discoteca. Gli studenti hanno ascoltato in silenzio, poi una ragazza ha alzato la mano: “Prof, ma noi cosa possiamo fare davvero?”. Da quella domanda è nata una rete.
Oggi, in tutta Italia, centinaia di studenti stanno creando una rete antirazzista nelle scuole. Non è un movimento spontaneo e temporaneo: è una forma di organizzazione, di attivismo giovanile strutturato, consapevole, che mette in discussione la scuola stessa come spazio neutro. Perché la scuola non è mai neutra. È luogo di trasmissione culturale, di norme, di linguaggi. È uno dei primi spazi in cui si impara il potere – e si può imparare anche a contrastarlo.
La rete è fatta di assemblee, volantini, gruppi di WhatsApp e Telegram, incontri pomeridiani, cineforum, progetti interculturali, corsi autogestiti. Ma soprattutto, è fatta di testimonianze. Studenti neri, rom, figli di immigrati che raccontano – per la prima volta – episodi di discriminazione subiti tra i banchi. Dall’insegnante che storpia il cognome, ai compagni che ridono dell’accento, fino ai test a scelta multipla con domande “ironiche” su culture diverse.
La rete antirazzista nelle scuole italiane: un cambiamento che parte dagli studenti
“Mi sono sentito a disagio per anni, ma pensavo fosse normale. Solo quando abbiamo iniziato a parlarne ho capito che non era giusto”, dice A., 17 anni, nato a Milano da genitori senegalesi. Ora è uno dei referenti della rete antirazzista del suo liceo. Organizza incontri nelle classi prime, propone libri da leggere, ha coinvolto anche alcuni docenti più giovani. “Il cambiamento deve partire da noi. E non possiamo più aspettare gli adulti.”
In alcune città, la rete è già coordinata tra più scuole. A Napoli, un gruppo di 12 istituti ha lanciato il progetto “Scuole senza razzismo”, con una carta dei principi condivisa, eventi aperti, laboratori di teatro e comunicazione. A Palermo, i ragazzi hanno creato un presidio permanente ogni venerdì pomeriggio, davanti al liceo Vittorio Emanuele, dove chiunque può prendere parola su episodi di discriminazione vissuti o visti. “Non vogliamo solo denunciare, vogliamo creare solidarietà tra studenti di scuole diverse”, racconta Yara, 16 anni, che coordina i turni del microfono libero.
Le scuole non sono tutte uguali. In alcuni istituti professionali, la maggioranza degli studenti ha origini straniere, mentre nei licei “buoni” la presenza di studenti neri o rom è spesso marginale. Questo squilibrio crea buchi di comprensione, mancanza di empatia. La rete antirazzista serve anche a questo: a far dialogare mondi che nella stessa città vivono a pochi chilometri ma sembrano universi paralleli.
L’iniziativa non nasce dal nulla. Si innesta su anni di progetti scolastici sull’intercultura, su campagne promosse da insegnanti coraggiosi, su esperienze associative radicate nel territorio. Ma questa volta c’è qualcosa di diverso: è una rete guidata dagli studenti stessi. E il linguaggio che usano è nuovo, diretto, inclusivo. Parlano di “razzismo strutturale”, di “bias inconsci”, di “privilegi bianchi”. Usano strumenti come Instagram, TikTok, Discord. E hanno un messaggio chiaro: “Non siamo qui per chiedere permesso. Siamo qui per cambiare le regole.”
In alcuni casi, le scuole hanno reagito con diffidenza. Un preside ha vietato l’affissione di manifesti perché “potenzialmente divisivi”. In un altro istituto, un docente ha detto a un ragazzo: “Queste cose politicizzano la scuola, lasciatele fuori.” Ma la rete non si è fermata. Ha documentato, ha scritto lettere aperte, ha coinvolto le famiglie, ha cercato sostegno tra docenti e sindacati.
E ha trovato alleati. Ci sono insegnanti che si stanno formando sul linguaggio inclusivo, che propongono letture alternative ai classici “canoni bianchi e maschili”, che invitano autori afroitaliani e attivisti a parlare in aula. In alcune scuole si stanno istituendo sportelli per raccogliere episodi di razzismo e microaggressioni, sulla scia delle campagne contro il bullismo. È un segnale: il razzismo a scuola non è più un tabù.
Anche su Antirazzismo.com abbiamo già parlato delle dinamiche scolastiche legate alla discriminazione, come nell’articolo “Il bullismo razzista nelle scuole primarie: come riconoscerlo”, dove si mostrava come il linguaggio e l’isolamento possano diventare forme di violenza. Questa rete studentesca ne è una risposta concreta.
Ma non si tratta solo di difesa. La rete promuove anche cultura, arte, bellezza. A Firenze, un gruppo di studenti ha dipinto un murales sulla parete della palestra: rappresenta ragazzi di ogni etnia che si tengono per mano, con la scritta “La scuola è di tutti”. A Bari, hanno organizzato una rassegna di cinema africano. A Genova, una classe ha realizzato un podcast dal titolo “Parla con me se hai coraggio”, dove si raccolgono testimonianze di episodi di razzismo vissuti in prima persona.
Tutte queste esperienze vengono condivise in rete: c’è una mappa collaborativa che mostra i progetti attivi, un archivio con materiali liberamente scaricabili (volantini, guide, bibliografie), e soprattutto un sistema di tutoraggio tra scuole. Le più attive aiutano quelle che vogliono iniziare. In questo modo, la rete cresce, si autoalimenta.
Ci sono anche momenti di piazza. Lo scorso 21 marzo, giornata internazionale contro il razzismo, oltre 80 scuole hanno partecipato a una mobilitazione congiunta. Cartelli, slogan, performance artistiche. Ma anche silenzi collettivi. In alcune città, alle 12 in punto, tutti gli studenti si sono seduti in silenzio nei corridoi per 8 minuti e 46 secondi, il tempo in cui George Floyd è stato tenuto a terra. Un gesto potente, nato dal basso, senza autorizzazioni ufficiali.
Questa nuova rete antirazzista nelle scuole è ancora giovane, ma ha già raggiunto una maturità impressionante. Non chiede solo diritti per sé, ma un cambiamento culturale. Vuole che i programmi scolastici includano la storia coloniale italiana, la schiavitù, il razzismo scientifico. Vuole che si parli di razzismo non solo quando accade un caso eclatante, ma sempre, come parte dell’educazione civica. Vuole che la diversità non sia un “tema”, ma una realtà integrata nel modo di insegnare e di vivere la scuola.
E soprattutto, vuole che nessuno più si senta solo. Perché il razzismo a scuola fa male non solo a chi lo subisce, ma a tutta la comunità. Divide, isola, crea paura. Una rete, al contrario, connette, sostiene, rafforza. È un antidoto.
Mentre l’Italia politica si interroga su chi può “meritare” la cittadinanza, nelle scuole italiane sta crescendo una generazione che ha già capito tutto: che non esistono cittadini di serie B, che l’identità non si misura in documenti, che la solidarietà è una forza rivoluzionaria.
Non sappiamo dove porterà questa rete. Ma sappiamo da dove parte: dal desiderio di giustizia, dalla rabbia trasformata in proposta, dalla convinzione che il cambiamento comincia tra i banchi.
E questo, forse, è il segnale più forte di tutti.