back to top
20.5 C
Torino
domenica, 22 Giugno,2025

Solidarietà tra migranti: quando chi ha sofferto diventa il primo a tendere la mano

Non ci sono riflettori. Non ci sono loghi. Non ci sono finanziamenti, né riconoscimenti. Ma ci sono mani che si tendono, parole che si scambiano, pasti divisi, letti offerti, ascolto sincero. È la solidarietà tra migranti, quella che si costruisce dal basso, lontano dagli slogan politici e dalle campagne istituzionali.

Chi ha attraversato il mare, chi ha dormito sotto ai ponti, chi ha subito lo sguardo razzista, spesso è il primo a riconoscere il dolore dell’altro. E, proprio perché sa cosa vuol dire essere lasciati soli, diventa il primo ad aiutare.

Questa solidarietà ha mille volti. Come quello di Souleymane, che oggi lavora come mediatore culturale in un centro di accoglienza a Bologna. Ma che sei anni fa, quello stesso centro l’ha vissuto da ospite, appena sbarcato dalla Libia. “All’inizio non parlavo con nessuno. Poi un ragazzo tunisino che era lì da più tempo ha iniziato a parlarmi, mi ha aiutato con i documenti, con l’italiano. Da allora ho promesso a me stesso che avrei fatto lo stesso per altri.” Oggi è lui che accoglie, che traduce, che accompagna i nuovi arrivati negli uffici comunali, che li ascolta quando non ce la fanno più.

Storie come la sua sono ovunque. Nei piccoli centri, nei campi agricoli, nei centri di accoglienza straordinaria, nelle occupazioni. La solidarietà tra migranti è una rete invisibile ma potentissima, che spesso salva più di tante strutture ufficiali.

A Napoli, un gruppo di giovani migranti ha creato una piccola cooperativa informale che si occupa di orientamento. Si chiamano “Mano nella Mano”. Aiutano chi arriva a trovare un posto letto, a evitare truffe nei contratti di lavoro, a non cadere nelle maglie della criminalità. “Lo facciamo perché ci è successo anche a noi”, dice Cheick, uno dei fondatori, originario della Costa d’Avorio. “Quando sono arrivato, nessuno mi ha spiegato nulla. Ho perso due anni a capire come muovermi. Ora cerchiamo di evitare che altri perdano tempo e dignità.”

A Roma, nel quartiere di Tor Sapienza, alcuni migranti bengalesi hanno organizzato un doposcuola gratuito per bambini figli di immigrati, aperto anche a italiani in difficoltà. La chiamano “Scuola del Vicinato”. Hanno affittato uno scantinato, lo hanno riempito di banchi e lavagne recuperate, e ogni pomeriggio aiutano decine di bambini nei compiti. Alcuni di loro fanno lavori di fatica la mattina, ma non mancano mai all’appuntamento del pomeriggio. Perché quella è la loro rivincita.

Nel nostro precedente articolo “Studenti in marcia contro l’odio: la nuova rete antirazzista nata nelle scuole italiane”, abbiamo raccontato come siano spesso i giovani a dare il via a cambiamenti reali. Anche qui, la spinta parte dal basso, dalle relazioni, dalla memoria del dolore trasformata in forza attiva.

In Calabria, nel ghetto di Rosarno, i braccianti africani più anziani sono spesso quelli che si prendono cura dei nuovi arrivati. Insegnano dove trovare acqua potabile, come proteggersi dal freddo la notte, quali nomi evitare nei campi per non cadere sotto il giogo dei caporali. Alcuni sono lì da dieci anni. Hanno visto passare centinaia di ragazzi. “Non vogliamo essere capi”, dice Moussa, senegalese. “Solo fratelli maggiori.”

Ci sono reti spontanee che nascono anche durante i viaggi. Nei Balcani, nei centri di transito, lungo le rotte migratorie, i migranti si organizzano. Condividono cibo, informazioni, medicine. C’è chi sa parlare più lingue e traduce per gli altri. Chi sa usare un GPS guida il gruppo. Chi ha esperienza con le frontiere spiega come comportarsi. Questa forma di mutuo aiuto, documentata da molte ONG, ha salvato vite.

Ma anche una volta arrivati in Italia, il viaggio continua. E la solidarietà tra migranti non si ferma. A Firenze, alcuni ragazzi tunisini hanno creato un gruppo di supporto psicologico informale. “Parliamo tra di noi, ci raccontiamo. È una forma di terapia.” Uno di loro ha studiato psicologia nel suo Paese. Ora usa le sue conoscenze per facilitare cerchi di parola. “Non siamo professionisti, ma abbiamo bisogno di parlare. E spesso nessuno ci ascolta.”

La solidarietà tra migranti: una rete invisibile che resiste ogni giorno

A Milano, un gruppo di donne eritree ha messo in piedi una rete di assistenza per donne incinte e neomamme migranti. Si occupano di accompagnarle alle visite, di aiutarle a trovare vestiti e pannolini, di stare con loro durante il travaglio se non hanno nessuno accanto. Lo fanno perché ricordano cosa significa partorire in un Paese straniero, senza famiglia, senza lingua, senza garanzie.

In alcune occupazioni abitative a Roma, la gestione degli spazi comuni è affidata a comitati formati interamente da migranti. Alcuni sono diventati esperti di contratti, di leggi sull’immigrazione, di regolamenti comunali. “Abbiamo imparato sul campo”, dicono. “E ora aiutiamo gli altri.”

Nel nostro articolo “Volontari senza divisa: chi porta cibo, ascolto e dignità nei ghetti invisibili d’Italia”, abbiamo mostrato come il volontariato antirazzista italiano operi nei luoghi più difficili. Ma spesso quei volontari sono migranti loro stessi. E questo cambia tutto. Non è solo aiuto: è orizzontalità, è riconoscimento reciproco, è dignità che si trasmette.

Anche nei centri per richiedenti asilo, la solidarietà interna è fondamentale. Quando arrivano persone nuove, spesso sono gli altri ospiti a spiegare come funziona tutto. Non ci sono brochure, né corsi. Ma ci sono storie, racconti, esperienze condivise. Questo sapere informale è preziosissimo.

Ci sono poi momenti di crisi in cui questa rete si rafforza. Durante la pandemia, quando molte strutture ufficiali si sono fermate, sono stati i migranti a portare cibo e medicine ai connazionali malati. A Napoli, una comunità filippina ha attivato una raccolta fondi interna per aiutare le famiglie in difficoltà. A Bologna, un gruppo di giovani senegalesi ha fatto consegne gratuite di spesa per anziani immigrati.

La solidarietà tra migranti non ha confini etnici. In molti casi, persone di Paesi diversi collaborano. In un centro a Torino, alcuni ragazzi nigeriani e bengalesi hanno messo in piedi un laboratorio di falegnameria. Oggi producono tavoli, sedie, scaffali. Li donano a famiglie in difficoltà, italiane e straniere. “Lavorare insieme ci ha fatto scoprire che siamo più simili di quanto pensavamo”, dice Abdur, uno dei promotori.

Questa rete non è formalizzata. Non ha un nome, né uno statuto. Ma esiste. Vive nel passaparola, nelle chat, nei legami informali. È fatta di chi ha imparato sulla propria pelle e ora insegna ad altri come non perdersi. È un esempio fortissimo di resistenza e di umanità, che merita di essere raccontato e valorizzato.

In un Paese che spesso divide, che costruisce muri, che etichetta, che sospetta, questa rete mostra che esiste un altro modo di stare insieme. Che chi ha sofferto può diventare il primo a curare. Che il dolore non sempre chiude: a volte apre.

E allora forse dovremmo imparare da loro. Dovremmo smettere di vedere i migranti solo come soggetti da “aiutare” e iniziare a riconoscerli come soggetti attivi, capaci di costruire comunità, relazioni, sistemi di cura. Perché è questo che fanno, ogni giorno, nel silenzio. Creano futuro.

Articoli correlati

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

social a.r.

1,264FansMi piace
4,280FollowerSegui
- Advertisement -

libri e letteratura