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domenica, 22 Giugno,2025

Sport e Islamofobia: divieti sul velo, esclusione e stereotipi nei campi da gioco

Sport e islamofobia: quando il velo diventa un ostacolo e lo spazio un’esclusione

Sport e islamofobia sono strettamente legati in Europa, spesso in modi invisibili ma sistemici. Il campo da gioco dovrebbe essere un luogo neutro. Un terreno dove valgono solo impegno, abilità, rispetto. Ma per molte persone musulmane, soprattutto donne e ragazze, lo sport è anche un luogo di discriminazione. Regole non scritte. Divieti che si mascherano da sicurezza. Battute che fanno più male di un fallo.

L’islamofobia nello sport non è un episodio. È un sistema. Invisibile per chi non lo subisce, evidente per chi lo vive ogni giorno.

Il caso del velo: sport vietato a chi crede

Nel 2014, la FIFA ha finalmente revocato il divieto di indossare l’hijab nei campionati ufficiali. Fino a quel momento, centinaia di atlete musulmane erano state escluse per “motivi di sicurezza”. Ma era davvero il velo a preoccupare, o ciò che rappresentava?

In Francia, la federazione calcistica mantiene tuttora il divieto di hijab in partite ufficiali. Una ragazza musulmana può allenarsi, ma non giocare. Può correre, ma non essere vista. Il messaggio è chiaro: “Se vuoi partecipare, devi nasconderti”.

In Italia, le regole sono meno esplicite ma non per questo meno escludenti. In molti tornei locali, le allenatrici chiedono alle ragazze di “togliere il velo per non creare problemi”. Altre vengono escluse con la scusa del “codice uniforme”. Il diritto allo sport viene subordinato all’abbandono della propria identità.

Stereotipi di genere, razza e religione

Nel basket, nel volley, nell’atletica, le atlete musulmane vengono spesso percepite come “meno femminili”, “poco visibili”, “non rappresentative”. Alcune sponsor si rifiutano di sostenerle. Le telecamere le ignorano. I commentatori evitano di nominarle.

Gli uomini musulmani, invece, vengono dipinti con il cliché opposto: aggressivi, violenti, poco inclini al gioco di squadra. Se un ragazzo con nome arabo commette un fallo, è “esempio di rabbia”. Se lo fa un italiano, è “grinta da campione”.

Lo stereotipo agisce su due binari: sessismo e razzismo. Ma quando entra la religione, la discriminazione diventa tripla. Le ragazze velate sono viste come “imposte”, i ragazzi praticanti come “rigidi”.

Divieti non scritti e panchine vuote

Molte squadre locali non accettano iscrizioni da parte di ragazze musulmane. Non lo dicono esplicitamente, ma fissano allenamenti in orari impossibili o impongono abbigliamenti non compatibili. Altre escludono i giovani musulmani perché “parlano poco”, “sono chiusi”, “non hanno il fisico adatto”.

Il Ramadan diventa un pretesto per metterli da parte. Digiunare viene interpretato come “mancanza di spirito sportivo”. In alcuni casi, si vieta addirittura la partecipazione durante il mese sacro.

Una ragazza a Milano ha raccontato:
“Avevo 15 anni. Giocavo a pallavolo da cinque. Poi ho messo il velo. La mia allenatrice mi ha detto che non potevo più entrare in campo: ‘È una distrazione per le altre’.”

Un ragazzo a Bologna:
“A ogni allenamento mi chiedevano se pregavo cinque volte al giorno. Ridevano. Poi hanno iniziato a farmi entrare solo nel secondo tempo. Poi mai.”

La paura del “diverso” anche tra i tifosi

Nei campi amatoriali, ma anche sugli spalti professionistici, i cori islamofobi sono una realtà. “Vai a pregare”, “Non sei italiano”, “Torna alla moschea” sono insulti comuni rivolti a calciatori musulmani, anche di serie A. Raramente i cori vengono puniti. Più spesso, vengono minimizzati.

Quando i club rilasciano dichiarazioni, parlano di “episodi isolati”. Ma se succede ogni domenica, non è un’eccezione: è cultura.

L’ipocrisia dell’inclusione a parole

Le campagne “No to racism”, “Respect”, “Diversity wins” riempiono i social, le maglie, gli spot pubblicitari. Ma poi le federazioni non accolgono le segnalazioni. Gli arbitri non denunciano gli insulti. Gli allenatori non difendono le loro atlete.

L’inclusione resta sulla carta. Lo sport resta uno spazio condizionato da norme non scritte, tutte volte a “normalizzare” chi è ritenuto troppo visibile nella propria differenza.

Le storie che rompono il silenzio

Ci sono però storie che cambiano le cose. Come quella di Bilqis Abdul-Qaadir, cestista americana che ha lottato per anni per poter giocare con l’hijab. O di Sabria Boukhima, judoka francese esclusa dai campionati per il suo abbigliamento e poi diventata simbolo di resistenza.

In Italia, piccoli progetti inclusivi stanno nascendo in contesti locali: squadre miste, allenatori formati, tornei multiculturali. Ma sono ancora l’eccezione, non la regola.

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Conclusione: riprendersi lo spazio, un passo alla volta

Lo sport è uno dei luoghi in cui si formano identità, sogni, appartenenze. Escludere qualcuno dallo sport è togliergli una possibilità di esistere pienamente nella società.

Contro l’islamofobia sportiva servono regole chiare, allenatori consapevoli, tifoserie educate e istituzioni coraggiose. Perché una partita non sarà mai davvero “giusta” se il campo non è aperto a tutti.

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