Islamofobia e carcere: la detenzione che umilia anche l’anima
Islamofobia e carcere. Due realtà che si incrociano in silenzio, dietro muri spessi e porte blindate, lontano dagli occhi del mondo. Perché se fuori l’islamofobia si può raccontare, denunciare, documentare, dentro le carceri spesso non ha testimoni. Eppure si insinua ovunque: nei controlli, nelle perquisizioni, nelle umiliazioni quotidiane, nella negazione della fede come diritto minimo dell’essere umano.
Nei sistemi penitenziari europei, l’islamofobia non è un episodio. È un pattern. Invisibile per chi non lo vive, soffocante per chi lo subisce.
Maggioranza nelle celle, minoranza nei diritti
In molti Paesi europei — Francia, Belgio, Olanda, Regno Unito — la popolazione carceraria musulmana è sproporzionata rispetto al totale della popolazione. In Francia, i dati più accreditati stimano che oltre il 50% dei detenuti sia di fede musulmana, a fronte di una popolazione generale che non supera l’8-9%. In Belgio si parla di 45%, nel Regno Unito circa 30%.
Queste cifre non sono casuali. Riflettono il funzionamento di sistemi giudiziari spesso orientati da pregiudizi strutturali, controlli selettivi e condanne sproporzionate. Il profiling razziale e religioso agisce fin dall’arresto, continua durante il processo e culmina nella reclusione. Ma è dentro il carcere che l’islamofobia diventa quotidianità legalizzata.
Preghiera negata, cibo proibito, identità cancellata
In molti istituti penitenziari, la libertà religiosa è scritta nei regolamenti ma ignorata nella pratica. I detenuti musulmani raccontano di:
- Orari di preghiera non rispettati
- Spazi di culto inaccessibili
- Impossibilità di fare il digiuno durante il Ramadan
- Cibo halal non garantito o deliberatamente confuso
- Imam assenti, o ammessi solo saltuariamente
- Quran e oggetti religiosi sequestrati durante le perquisizioni
Spesso, la fede viene vista come una “minaccia all’ordine” invece che come diritto. La spiritualità islamica, che per molti è fondamentale per resistere alla reclusione, viene trattata con sospetto, ignoranza o aperto disprezzo.
Un ex detenuto in Germania ha raccontato:
“Ci prendevano in giro quando pregavamo. Una volta mi hanno detto che il mio tappeto era una scusa per nascondere droga. Lo hanno bruciato.”
In Italia, la situazione non è diversa. Il Garante dei Detenuti ha segnalato più volte la totale assenza di imam nelle carceri italiane, se non in rare eccezioni. Nei fatti, un detenuto musulmano è lasciato solo con la propria fede, senza guida, senza riconoscimento.
Umiliazioni silenziose: “qui dentro Allah non comanda”
Il carcere è un luogo di potere, e la religione, se non è quella dominante, viene tollerata solo finché non disturba. Molti agenti penitenziari vedono nei praticanti musulmani una forma di “ribellione” o “diversità pericolosa”.
C’è chi viene punito con isolamento per aver chiesto di pregare, chi viene insultato per la barba, chi riceve cibo contaminato durante il Ramadan. E ancora:
- detenuti costretti a denudarsi davanti a guardie che li insultano in arabo maccheronico
- appelli pubblici durante la preghiera
- lettere in lingua araba sequestrate senza giustificazione
Una frase ricorrente nei racconti dei detenuti è questa:
“Mi dicevano: qui dentro Allah non comanda.”
E questa frase, così violenta, racchiude l’intero senso dell’islamofobia in carcere: negare la dignità spirituale per rafforzare la dominazione materiale.
L’imam che non c’è: la solitudine della fede
A differenza dei cappellani cattolici, spesso presenti e stipendiati dallo Stato, gli imam non sono integrati nei sistemi penitenziari europei. Sono volontari, se ci sono. In molti casi, non sono nemmeno ammessi perché considerati “rischio di radicalizzazione”.
Questo crea un paradosso inquietante: le autorità temono la radicalizzazione islamica ma negano ogni presenza positiva dell’Islam nei luoghi di detenzione. Il vuoto spirituale viene così riempito non dalla guida religiosa, ma dal rancore, dall’umiliazione, dall’isolamento.
“Musulmano = pericoloso”: il cortocircuito securitario
Uno degli aspetti più tossici dell’islamofobia in carcere è la percezione sistemica del musulmano come soggetto potenzialmente pericoloso.
Molti detenuti musulmani vengono schedati, sorvegliati, isolati non per atti concreti, ma per la loro fede. Alcuni vengono tenuti sotto “sorveglianza radicale” solo perché frequentano altri musulmani, pregano in gruppo o leggono testi religiosi.
Questo clima di sospetto perpetuo ha due conseguenze gravissime:
- Chi è credente viene punito per la sua fede.
- Chi non lo è, lo diventa per protesta o identità reattiva.
L’islamofobia istituzionale produce così il contrario della sicurezza: fomenta frustrazione, alienazione e chiusura identitaria.
Donne musulmane detenute: invisibili due volte
Le donne musulmane in carcere vivono una condizione ancora più drammatica. In molti Paesi, sono numericamente poche e quindi del tutto ignorate nei bisogni religiosi. La possibilità di indossare il velo è spesso negata. Gli spazi di preghiera sono inesistenti. Le guardie spesso non conoscono nemmeno le esigenze basilari di igiene legate alla pratica islamica.
Una ex detenuta in Spagna racconta:
“Mi facevano spogliare completamente durante le visite mediche, senza alcuna attenzione. Quando chiedevo privacy, ridevano. Mi chiamavano ‘talebana’.”
La fede, per molte di loro, è l’unico appiglio di dignità. Ma in carcere è un altro motivo di scherno e umiliazione.
🔗 Collegamenti editoriali:
- Per comprendere come le discriminazioni islamofobe inizino ben prima della detenzione, leggi:
👉 Islamofobia e forze dell’ordine: controlli a senso unico e profiling razziale - Per approfondire l’impatto psicologico della discriminazione continua, leggi:
👉 Islamofobia e salute mentale: l’impatto invisibile della discriminazione quotidiana - Per un focus sulle donne musulmane e lo spazio pubblico, leggi:
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Conclusione: chiudere le celle dell’odio
Il carcere dovrebbe essere luogo di espiazione, non di annientamento. La dignità religiosa non è un privilegio, è un diritto umano. Negarlo ai detenuti musulmani significa consolidare un sistema che punisce l’identità, non solo l’azione.
Contro l’islamofobia penitenziaria serve:
- formazione obbligatoria per il personale
- presenza stabile di imam
- rispetto delle pratiche religiose fondamentali
- monitoraggio indipendente dei casi di discriminazione
Perché anche dietro le sbarre, un essere umano resta tale. E la sua fede non può essere rinchiusa.