Islamofobia e cittadinanza: quando la burocrazia europea discrimina i musulmani
In Europa, l’islamofobia non è più solo questione di retorica politica o di aggressioni individuali. Esiste una dimensione molto più profonda e strutturale: quella istituzionale. La cittadinanza, il diritto che dovrebbe rappresentare l’integrazione definitiva in una società, è diventata in molti Paesi europei un campo minato per numerosi cittadini di fede musulmana. Norme, burocrazia, discrezionalità amministrativa e sospetti culturali alimentano un sistema che esclude sistematicamente.
L’apparente neutralità delle leggi sulla cittadinanza nasconde in realtà criteri che impattano in modo sproporzionato su determinati gruppi etnici e religiosi. Sebbene sulla carta tutti i richiedenti debbano soddisfare gli stessi requisiti — residenza stabile, assenza di precedenti penali, conoscenza della lingua e della cultura nazionale — la loro applicazione concreta mostra evidenti asimmetrie. La burocrazia diventa spesso un filtro che blocca l’accesso alla cittadinanza proprio per chi, come le persone musulmane, viene percepito culturalmente “altro”.
Dietro ogni pratica amministrativa si nasconde un automatismo del sospetto. Molti cittadini musulmani, anche nati o cresciuti in Europa, affrontano interrogazioni particolarmente intrusive sulla loro vita privata, sui legami familiari, sulle frequentazioni religiose e sociali. Ogni elemento della loro identità viene valutato alla ricerca di segnali che confermino o smentiscano la loro “integrazione”. In molti casi, la sola pratica religiosa diventa di per sé motivo di sospetto.
In Francia, ad esempio, il concetto di laïcité viene spesso interpretato come pretesto per valutare negativamente i richiedenti musulmani. Durante i colloqui di naturalizzazione, indossare un velo, frequentare moschee o manifestare pubblicamente la propria fede possono essere interpretati come segno di mancata adesione ai “valori repubblicani”. Nonostante l’assenza di norme esplicite che vietino la pratica religiosa, i criteri di integrazione vengono spesso piegati per escludere chi vive apertamente la propria identità islamica.
In Germania, in alcuni Länder, le autorità sottopongono i richiedenti musulmani a test di “valori culturali”, che includono domande sulla posizione personale in materia di parità di genere, diritti LGBTQ, condanna del terrorismo e rispetto dei valori democratici. Sebbene apparentemente neutrali, tali questionari alimentano una logica binaria di fiducia/sospetto che tende a etichettare i musulmani come un gruppo collettivamente a rischio.
In Italia, la situazione presenta sfumature diverse ma ugualmente problematiche. La legge italiana sulla cittadinanza è già di per sé tra le più restrittive d’Europa, fondata su uno ius sanguinis che esclude decine di migliaia di giovani nati e cresciuti nel Paese da genitori stranieri. Per i cittadini di fede musulmana, i percorsi di naturalizzazione attraverso la residenza diventano ancora più complicati a causa della lentezza burocratica, della discrezionalità nelle valutazioni di sicurezza e del clima politico che alimenta narrazioni sull’invasione, la radicalizzazione e il terrorismo.
Molti richiedenti si trovano costretti a fornire certificazioni aggiuntive, a subire controlli approfonditi sulle fonti di reddito, sui legami con paesi di origine e su eventuali frequentazioni comunitarie. La documentazione richiesta va spesso ben oltre quanto previsto formalmente dalla legge, generando ulteriori ritardi e incertezze. In molti casi, l’intero procedimento di naturalizzazione si blocca per anni senza spiegazioni chiare.
Non ottenere la cittadinanza non è una questione puramente simbolica. Restare “stranieri amministrativi” significa vivere in una condizione di costante precarietà giuridica e sociale. Significa non poter votare, avere accesso limitato a determinati impieghi pubblici, subire difficoltà nell’ottenere prestazioni sociali e rischiare, in caso di perdita del lavoro, la revoca o il mancato rinnovo del permesso di soggiorno.
Un ulteriore elemento di discriminazione emergente riguarda il potere, concesso a diversi governi europei, di revocare la cittadinanza in caso di minaccia alla sicurezza nazionale. In Paesi come Regno Unito, Francia e Danimarca, norme recenti consentono la decadenza della cittadinanza a doppio passaporto senza passare da un procedimento giudiziario completo. Anche in questo caso, le revoche colpiscono in modo sproporzionato cittadini di origine musulmana, che diventano soggetti a un regime giuridico più debole e più vulnerabile.
L’impatto psicologico e sociale di queste politiche è devastante. Intere generazioni di giovani musulmani, nati e cresciuti in Europa, si trovano costretti a giustificare costantemente la propria appartenenza al Paese che chiamano casa. La cittadinanza, che dovrebbe rappresentare il pieno riconoscimento dell’identità individuale e della partecipazione democratica, diventa un privilegio continuamente messo in discussione.
La discriminazione istituzionale nel riconoscimento della cittadinanza è una forma sofisticata di islamofobia: non si esprime attraverso insulti diretti o atti di violenza fisica, ma attraverso norme fredde, protocolli opachi, discrezionalità amministrative e silenzi burocratici. È un razzismo sistemico che produce esclusione in maniera silenziosa, normalizzata e spesso invisibile all’opinione pubblica.
Rompere questo circolo vizioso richiede più di una semplice riforma legislativa. Serve un cambiamento profondo del paradigma culturale e istituzionale con cui l’Europa guarda alle proprie minoranze musulmane. Occorre riconoscere che l’inclusione non può essere condizionata dall’abbandono delle proprie identità religiose e culturali. La cittadinanza deve tornare a essere un diritto pieno e incondizionato, non un premio elargito a discrezione del potere amministrativo.
Finché le istituzioni europee continueranno a considerare la presenza musulmana come un “caso da gestire” piuttosto che una componente integrante della società, la discriminazione proseguirà sotto la veste rispettabile di regole astratte e procedure formali. Ed è proprio in questa zona grigia che l’islamofobia sistemica continua a prosperare.