Islamofobia e forze dell’ordine: controlli a senso unico e profiling razziale
Indossare un hijab, avere la barba lunga, chiamarsi Ahmed o Fatima, parlare una lingua diversa dall’italiano. In molti quartieri d’Europa, questi elementi bastano per diventare bersagli della sorveglianza, dei controlli, del sospetto. L’islamofobia non è solo un fenomeno sociale o culturale: è anche istituzionale. E uno dei suoi volti più pericolosi si manifesta attraverso le forze dell’ordine.
Un controllo che ha un solo volto
Non tutti vengono fermati allo stesso modo. Nei quartieri popolari di Milano, Marsiglia, Berlino o Anversa, sono spesso i giovani musulmani ad essere fermati per controlli di identità, perquisizioni, domande invasive. I motivi? “Routine”, “profilassi”, “controllo del territorio”. Ma i numeri raccontano altro.
In Francia, il 2022 ha visto un aumento del 47% dei controlli mirati verso cittadini di origine nordafricana. In Germania, uno studio dell’Istituto per i Diritti Umani ha rilevato che il 73% dei giovani musulmani si è sentito “sorvegliato in modo sproporzionato”. In Italia, non esistono dati ufficiali: e già questa è una forma di negazione.
Profiling razziale: l’islamofobia sotto uniforme
Il “racial profiling” – ovvero la pratica di selezionare chi controllare sulla base dell’aspetto, del nome o della religione presunta – è una realtà che colpisce in modo sistematico i cittadini musulmani. La polizia nega. I governi tacciono. Ma le testimonianze si moltiplicano.
Un giovane tunisino nato a Torino racconta:
“Mi fermano almeno una volta al mese. A volte mi chiedono se ho droga. Altre volte vogliono solo sapere dove vado. Se cammino con amici italiani, non succede mai.”
Una donna velata, madre di due figli, dice:
“All’aeroporto mi separano sempre. Controllano la mia valigia anche se ho il passaporto italiano. Una volta mi hanno chiesto se portavo oggetti religiosi pericolosi. Avevo solo un tappetino da preghiera.”
I confini come laboratorio di discriminazione
I confini sono spazi di sospensione del diritto. Nei valichi tra Italia e Svizzera, tra Ungheria e Austria, tra Grecia e Macedonia, i controlli colpiscono in modo selettivo chi “sembra musulmano”. Il sospetto non si basa su atti, ma su facce.
Nell’aeroporto di Fiumicino, un’inchiesta indipendente ha mostrato che i cittadini con nome arabo sono dieci volte più soggetti a perquisizione. In Belgio, un parlamentare ha denunciato che negli aeroporti di Bruxelles i controlli “random” colpiscono sistematicamente i fedeli musulmani di ritorno dalla Mecca.
Quando la fede diventa prova
Portare una copia del Corano, indossare un hijab, avere la foto di una moschea sul telefono: tutto può diventare motivo di allerta. Le forze dell’ordine non cercano più prove, cercano indizi ideologici. L’Islam viene trattato come minaccia.
Questo atteggiamento è rafforzato da anni di narrazione tossica nei media, come già approfondito in Islamofobia nei media. La polizia è lo strumento esecutivo di un pregiudizio che inizia altrove: in TV, nei talk show, nei decreti sicurezza.
La logica preventiva che punisce prima
Con l’introduzione di leggi anti-terrorismo sempre più vaghe, molte autorità di polizia hanno ottenuto il potere di fermare, interrogare e controllare persone sulla base del “sospetto preventivo”. Ma questo sospetto ha un colore, una religione, un profilo.
In Spagna, un giovane imam è stato trattenuto per 7 ore solo perché cercava casa vicino a una scuola. In Olanda, un padre di famiglia è stato seguito dalla polizia per tre giorni solo perché frequentava regolarmente una moschea.
Queste azioni non proteggono: dividono. Umiliano. Delegittimano intere comunità.
La retorica della sicurezza che legittima l’abuso
Ogni volta che si denuncia un abuso, la risposta è sempre la stessa: “lo facciamo per la sicurezza di tutti”. Ma chi definisce chi è “tutti”? E perché la sicurezza di alcuni passa sempre attraverso il sospetto verso altri?
La sicurezza non può essere costruita sulla violazione dei diritti. Il controllo deve essere uguale per tutti. E invece, chi è musulmano lo vive come uno stato d’eccezione continuo. Un cittadino a metà.
Islamofobia nelle carceri e nei commissariati
Non è solo la strada. Nei commissariati, nei centri di identificazione, nelle carceri, l’islamofobia prende la forma di umiliazioni, negazioni della preghiera, cibo non halal, battute offensive.
Già in Islamofobia e carcere approfondiremo questi temi, ma è importante sottolineare che molti abusi iniziano proprio con un fermo per “motivi di sicurezza”.
Il silenzio della legge
In teoria, il profiling razziale è vietato. In pratica, è sistematico. Le vittime non sanno a chi rivolgersi. Le denunce vengono archiviate. I sindacati di polizia difendono “l’operato regolare”. I governi evitano di toccare l’argomento.
In Italia, non esiste alcun meccanismo indipendente di controllo sui comportamenti discriminatori delle forze dell’ordine. Chi subisce razzismo da chi dovrebbe proteggere, spesso resta in silenzio. Per paura. Per sfiducia. Per rassegnazione.
Voci di resistenza
Nonostante tutto, ci sono agenti di polizia che parlano. Che denunciano. Che lavorano per un approccio diverso. Ci sono associazioni che formano le forze dell’ordine sul rispetto dei diritti umani. Ci sono comunità musulmane che dialogano apertamente con i prefetti.
Un imam di Bruxelles racconta:
“Abbiamo chiesto incontri con la polizia. Non per accusare, ma per far capire cosa si prova a essere fermati ogni giorno solo per il proprio volto.”
A Marsiglia, un gruppo di giovani musulmani ha creato un osservatorio sul profiling. Raccoglie testimonianze, offre supporto legale, pubblica rapporti. È la resistenza dei numeri, delle parole, della documentazione.
Collegamenti editoriali interni:
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Conclusione: protezione, non persecuzione
Le forze dell’ordine dovrebbero garantire giustizia, sicurezza, rispetto. Ma quando diventano strumenti di discriminazione, tradiscono la loro missione.
Non esiste sicurezza vera senza equità. Non esiste legalità vera senza giustizia per tutti. Anche per chi prega rivolto verso La Mecca.