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domenica, 22 Giugno,2025

Islamofobia nei media: come la narrazione tossica alimenta odio e stereotipi

In Europa, l’islamofobia non si manifesta solo nelle leggi, nei controlli di polizia o nelle discriminazioni sul lavoro. Una delle sue forme più pervasiva e persistente si annida nelle parole, nelle immagini e nei silenzi dei media. Giornali, televisioni, radio, siti d’informazione e social network contribuiscono da anni a costruire una narrazione tossica sull’Islam e sulle persone musulmane. È una narrazione fatta di semplificazioni, paure, stereotipi e, soprattutto, di esclusioni.

L’islamofobia nei media è una macchina invisibile ma potentissima che agisce ogni giorno, spesso senza essere riconosciuta come tale. È sistemica, cioè strutturale: non è frutto di una singola trasmissione o di un singolo articolo, ma il risultato di decenni di produzione culturale in cui l’Islam è stato raccontato sempre nello stesso modo. Questo articolo vuole smontare quel racconto, analizzarne le dinamiche, e mostrare le possibilità di una contro-narrazione.

Islamofobia nei media: la costruzione quotidiana del nemico

Il linguaggio come arma

Il modo in cui i media parlano delle comunità musulmane influenza direttamente la percezione pubblica. I titoli dei quotidiani, le immagini associate alle notizie, il lessico usato nei talk show contribuiscono a definire cosa è “normale” e cosa è “altro”, cosa è familiare e cosa è minaccioso. E nella costruzione mediatica dominante, l’Islam è quasi sempre l’”altro”.

Un esempio classico è il modo in cui vengono trattate le notizie su episodi di violenza. Se l’autore è musulmano, la religione diventa automaticamente un fattore determinante. Se invece l’autore è cristiano, bianco o europeo, la stampa tende a parlare di “disturbi psichici”, di “isolamento sociale”, di “problemi personali”. Questo doppio standard rafforza l’idea che l’Islam sia un pericolo, mentre le altre identità siano neutre o addirittura vittime di sé stesse.

Abbiamo già affrontato questo meccanismo nell’articolo Islamofobia in Europa: il razzismo nascosto sotto il velo della sicurezza, dove mostravamo come la logica securitaria venga applicata in modo selettivo alle persone musulmane. I media non solo riflettono questa logica, ma la anticipano e la rafforzano.

Le immagini parlano: iconografia del sospetto

Nei telegiornali e nei siti di news, ogni volta che si parla di Islam compaiono immagini ripetitive: minareti, moschee riprese da lontano, uomini barbuti in preghiera, donne interamente velate. Non importa quale sia il contenuto della notizia: l’iconografia è standardizzata. Questo produce un effetto subliminale fortissimo, che fissa nell’immaginario collettivo un’idea distorta e pericolosa.

Anche in contesti apparentemente neutri, come servizi sulle migrazioni o sull’integrazione, la scelta delle immagini è spesso tendenziosa. Bambini musulmani in classi scolastiche, famiglie con abiti tradizionali, volti cupi. Mai una rappresentazione positiva, serena, normale. Questo alimenta la narrazione per cui l’Islam è sempre un “problema da risolvere”, mai una realtà legittima da conoscere.

L’assenza come forma di discriminazione

Oltre alle rappresentazioni distorte, c’è un’altra forma di islamofobia mediatica ancora più subdola: l’assenza. Le persone musulmane sono quasi del tutto assenti dai media in quanto esperti, conduttori, voci autorevoli. Se appaiono, è quasi sempre per parlare di terrorismo, sicurezza o “problemi delle periferie”. Mai come economisti, scienziati, artisti, docenti. Mai come parte integrante della società.

Come mostrato anche nell’articolo Donne musulmane e discriminazione: una lotta quotidiana tra razzismo e sessismo, le donne musulmane sono quasi completamente assenti dalle trasmissioni, dai dibattiti, dalle narrazioni di successo. E quando ci sono, vengono invitate solo in quanto musulmane, spesso per essere interrogate, sfidate, ridotte a oggetti di analisi.

Stereotipi nella fiction e nella cultura pop

Neanche la fiction televisiva e cinematografica si salva. Le produzioni europee presentano i personaggi musulmani quasi sempre come secondari, marginali, problematici. Il musulmano è spesso l’antagonista, il criminale, il fondamentalista. La donna musulmana è muta, velata, sofferente, o al massimo “salvata” da un personaggio bianco.

Queste rappresentazioni non sono innocue: influenzano la percezione dei più giovani, costruiscono aspettative sociali, rafforzano pregiudizi. Se un bambino musulmano non si vede mai rappresentato positivamente in TV, inizierà a interiorizzare un senso di inferiorità o alterità. Se un bambino non musulmano vede solo rappresentazioni negative, costruirà l’idea che i musulmani siano realmente inferiori o minacciosi.

I social network come amplificatori d’odio

Se i media tradizionali sono responsabili di costruire il frame, i social network lo amplificano. Meme razzisti, notizie false, contenuti clickbait pieni di disinformazione si diffondono rapidamente su Facebook, X (ex Twitter), YouTube e TikTok. Le piattaforme, basate su algoritmi che premiano l’engagement, spingono in alto i contenuti più estremi.

Lo abbiamo descritto anche in Islamofobia a scuola: pregiudizi, esclusione e resistenza tra i banchi in Europa: i bambini e ragazzi musulmani subiscono le conseguenze di questa tossicità anche tra i banchi. I compagni ripetono frasi sentite online, gli insegnanti cadono nei pregiudizi, le famiglie vengono isolate.

Le conseguenze reali della narrazione tossica

L’islamofobia mediatica non è solo un problema di rappresentazione: ha effetti concreti e gravi. Alimenta l’odio sociale, giustifica leggi discriminatorie, legittima controlli speciali, rende più difficile la vita quotidiana di milioni di persone.

Una narrazione tossica non resta confinata nei giornali: entra nelle scuole, negli uffici, negli ospedali, nei tribunali. Modella le leggi, orienta le politiche, condiziona le scelte economiche. E soprattutto, agisce nelle menti: normalizza l’ingiustizia, legittima il sospetto, spegne l’empatia.

Che cosa fare: strategie per una contro-narrazione

Contrastare l’islamofobia nei media significa costruire un altro racconto. Significa dare spazio a giornalisti musulmani, formare i redattori alla diversità culturale, inserire persone musulmane nei team editoriali. Significa anche sostenere media indipendenti, blog, podcast, iniziative di giornalismo partecipativo.

Bisogna pretendere regole editoriali più rigorose, chiedere rettifiche, denunciare i titoli faziosi, boicottare le testate tossiche. Ma soprattutto, bisogna creare contenuti alternativi: documentari, interviste, articoli, video che raccontino le vite musulmane nella loro complessità.

Educare lo sguardo, allargare la narrazione

Serve una trasformazione culturale che parta dalla scuola, dalle università, dalle accademie di giornalismo. Serve una pedagogia dell’ascolto, che non riduca l’altro a un oggetto ma lo riconosca come soggetto. Serve una comunicazione pubblica fondata sull’uguaglianza, non sullo spettacolo della paura.

L’obiettivo non è “difendere i musulmani”, ma garantire a tutti il diritto di essere rappresentati con dignità, complessità, verità. Il diritto di raccontarsi da sé, e non essere sempre raccontati da altri.

Conclusione

L’islamofobia nei media non è un errore, ma un sistema. È un sistema che possiamo e dobbiamo smontare, pezzo dopo pezzo, parola dopo parola. Possiamo costruire un’informazione che non rafforzi il sospetto ma l’incontro, che non alimenti odio ma comprensione.

Per farlo, servono voci nuove, strumenti nuovi, alleanze nuove. Ma soprattutto, serve il coraggio di guardare in faccia il problema. E di dire, con forza: basta.

Basta raccontare i musulmani solo come problema. Basta ignorare le voci che chiedono spazio. Basta costruire la paura, e chiamarla informazione.

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