Moschee sotto assedio
In tutta Europa, le moschee sono sotto assedio. Ma non sempre con fuoco o catene. A volte l’assedio si chiama burocrazia, si nasconde dietro ordinanze, si presenta con verbali comunali, cavilli edilizi, vincoli paesaggistici. A volte colpisce nel buio: vandalismi, scritte d’odio, teste di maiale lasciate sui portoni, molotov di notte. Altre volte è ancora più sottile: chiusure mascherate da “riorganizzazioni”, sgomberi senza notifica, ritiri improvvisi di permessi.
Le moschee non bruciano sempre nel senso letterale. Ma bruciano nell’anima dei credenti, che si sentono cittadini di serie B nel solo atto di voler pregare.
La moschea: luogo di culto, comunità, identità
Per milioni di musulmani europei, la moschea non è solo un edificio. È casa. È rifugio. È scuola, centro sociale, pronto soccorso morale. È il luogo dove i bambini imparano i valori, dove gli anziani trovano conforto, dove si condividono cibo, lutti, matrimoni, feste.
Ma ogni volta che una moschea viene chiusa, ostacolata, criminalizzata, il messaggio che passa è chiaro: “Qui non siete i benvenuti. Nemmeno in preghiera.”
Strategia della burocrazia: vietare senza vietare
In molte città europee, non c’è bisogno di dire esplicitamente “non vogliamo moschee”. Basta complicare i processi.
Ecco alcuni metodi comuni:
- Vincoli edilizi arbitrari: bastano 10 cm fuori norma per bloccare tutto.
- Lungaggini infinite per permessi di ristrutturazione.
- Zonizzazione discriminatoria: nessun edificio di culto islamico può sorgere in “aree residenziali”.
- Oneri sproporzionati per la sicurezza o l’igienizzazione.
- Controlli mirati, sempre e solo sulle moschee.
Il risultato? Comunità stremate, processi infiniti, spazi chiusi o mai aperti.
Vandalismi e violenza: la moschea come bersaglio
Negli ultimi anni si è registrata una preoccupante ondata di attacchi fisici alle moschee:
- Porte incendiate
- Croci e svastiche disegnate con vernice rossa
- Maiali morti gettati nei cortili
- Vetri infranti durante la preghiera
- Spari durante la notte
Spesso i responsabili non vengono identificati. E quando lo sono, le pene sono lievi, come se colpire un luogo di culto musulmano fosse un delitto minore.
La sensazione è quella di una impunità culturale: si può odiare l’Islam, e sarà comunque considerata “libertà d’espressione”.
Moschee “invisibili”: pregare nei seminterrati
Quando costruire è impossibile, le comunità si arrangiano. Si prega nei seminterrati, nei garage, nei magazzini.
Questi spazi, spesso inadeguati, diventano moschee informali: senza finestre, senza accesso per disabili, senza sicurezza. Ma sono tutto ciò che resta.
In alcuni paesi, queste moschee di fortuna vengono poi criminalizzate: “luoghi clandestini”, “a rischio radicalizzazione”.
Un paradosso crudele: non ti faccio costruire una moschea ufficiale, e poi ti accuso di pregare in modo irregolare.
Chi decide cosa è “compatibile con il paesaggio”?
In Italia, Francia, Germania, Svizzera e altri paesi, viene spesso negata l’autorizzazione per motivi estetici: la moschea “non si integra con il paesaggio urbano”.
Traduzione: minareti, cupole, mosaici e scritte arabe disturbano l’idea di una città “europea”, “cristiana”, “sobria”.
Ma nessuno si preoccupa del fatto che le città europee sono già multireligiose, già multiculturali, già pronte ad accogliere – se solo lo si vuole.
Il ruolo dei media e della politica
Ogni volta che una moschea viene costruita, scoppia una polemica. Titoli allarmanti, politici che promettono battaglia, raccolte firme. Nessuna chiesa evangelica, nessuna sinagoga ortodossa subisce lo stesso livello di ossessione mediatica.
Le moschee sono trasformate in simbolo di invasione, fanatismo, estremismo.
Così, un edificio religioso diventa una questione di sicurezza nazionale. E il diritto alla libertà di culto diventa materia di sondaggi.
Ma le moschee resistono
Nonostante tutto, le moschee resistono. Si reinventano. Trovano avvocati, raccolgono fondi, traducono documenti, organizzano eventi aperti.
I fedeli non si arrendono. Le donne organizzano lezioni. I giovani filmano documentari. Gli anziani raccontano come hanno pregato in silenzio per anni.
Ogni tappeto steso, ogni abluzione compiuta, ogni “Allahu akbar” sussurrato, è una forma di dignità. Una dichiarazione di esistenza. Una sfida a chi vorrebbe chiudere, spegnere, espellere.
🔗 Collegamenti editoriali
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Conclusione
Una città che non vuole moschee è una città che non vuole pluralismo. È una città che dimentica che il diritto a pregare – in sicurezza, dignità, bellezza – è un diritto umano, non un privilegio da negoziare.
Le moschee sotto assedio ci ricordano che la lotta per la libertà religiosa passa anche da porte chiuse, finestre murate, luci spente. Ma soprattutto dalla volontà incrollabile di chi, ogni giorno, apre quei portoni con la chiave della fede.