In Italia, nelle pieghe delle periferie, tra strade dimenticate e piazze spente, ci sono luoghi che non fanno notizia, ma che ogni giorno tengono insieme pezzi di umanità. Sono le cucine solidali antirazziste, piccoli presidi di resistenza dove il cibo non è solo nutrimento, ma gesto politico, cura, accoglienza, voce.
Nel quartiere di San Siro a Milano, tra vecchie case popolari e cantieri infiniti, c’è una mensa che ogni giovedì sera apre le porte a chiunque. Si chiama “Tavola Aperta”, e nasce dall’unione tra studenti, migranti, anziani del quartiere e attivisti. Nessun badge, nessun modulo, nessuna distinzione tra italiani e stranieri: solo un pasto caldo, cucinato collettivamente, servito con dignità. “Qui non ci sono volontari da una parte e utenti dall’altra. Tutti cucinano, tutti mangiano. È questo il senso della nostra rete”, dice Ilenia, una delle fondatrici.
Cucine solidali antirazziste: luoghi di resistenza quotidiana nelle città italiane
Le cucine solidali antirazziste sono spazi dove il cibo diventa mezzo di relazione, di scambio, di abbattimento delle barriere. In molti casi sono nate durante la pandemia, quando le strutture ufficiali si sono fermate e le persone si sono organizzate dal basso. Ma in realtà affondano le radici in esperienze precedenti: le mense dei centri sociali, i presidi migranti, le cucine popolari delle parrocchie di frontiera.
A Napoli, nella zona di Vasto, la “Cucina della Convivenza” serve ogni giorno oltre 80 pasti. Nata da una rete di donne migranti e italiane, è diventata un punto di riferimento per chi vive ai margini. “Qui cuciniamo in arabo, in wolof, in napoletano”, scherza Halima, una delle volontarie. “E ogni piatto è un’occasione per raccontare una storia.” Nei locali della mensa non ci sono solo tavoli e fornelli: ci sono libri per bambini, panchine dove parlare, una bacheca dove cercare lavoro o un alloggio.
In queste cucine si combatte il razzismo con pentole e mestoli. Perché cucinare insieme significa toccarsi, guardarsi, condividere, uscire dai pregiudizi. E sedersi a tavola uno accanto all’altro, senza barriere, è forse uno dei gesti più radicali in un tempo che separa.
Il nostro sito ha raccontato molte forme di reti di solidarietà, come nel recente articolo “Volontari senza divisa: chi porta cibo, ascolto e dignità nei ghetti invisibili d’Italia”, ma qui si tratta di qualcosa di diverso: un’azione collettiva e quotidiana che unisce persone di provenienze diversissime, e le fa resistere insieme, con semplicità.
A Bologna, la “Cucina della Resistenza” è un progetto nato da ex rifugiati e attivisti locali. Funziona grazie al recupero del cibo invenduto nei mercati, donato da piccoli produttori e cucinato da una squadra mista di volontari e migranti. Non è solo una mensa: è uno spazio di incontro, formazione e denuncia. Ospita dibattiti, cineforum, corsi di italiano, incontri interculturali. Una volta alla settimana, si tiene anche un “pranzo sospeso”: i residenti del quartiere possono lasciare un’offerta per permettere a chi non ha nulla di sedersi a tavola con dignità.
A Torino, nel quartiere Barriera di Milano, la “Tenda del Cibo” è un gazebo montato ogni sabato in piazza. Nata da un collettivo di giovani afrodiscendenti, la Tenda serve piatti della cucina africana, araba e italiana, cucinati insieme da madri e figlie. “Abbiamo iniziato per necessità, ma è diventato un momento politico. La nostra presenza qui dice: esistiamo, resistiamo, cuciniamo.” Il ricavato viene reinvestito in aiuti alimentari per famiglie senza reddito. E ogni pasto è servito con un volantino: “Il razzismo non si combatte solo con le parole, ma anche con il riso speziato.”
Spesso queste realtà nascono e si reggono su reti informali. Nessuna struttura gerarchica, nessuna burocrazia. Solo fiducia e determinazione. A Firenze, un gruppo di rifugiati ha riaperto una vecchia cucina chiusa durante il Covid. Hanno ridipinto le pareti, riparato i fornelli, e oggi offrono cene settimanali gratuite per migranti e senzatetto. Il progetto si chiama “Radici in Tavola”. Ogni piatto è legato a una storia: una zuppa eritrea che ricorda la madre, un couscous marocchino cucinato per la prima volta in Italia, una frittata fatta con le uova donate da un contadino locale.
Queste esperienze dimostrano che la solidarietà è concreta. Che non serve una struttura, ma una visione. Che il cibo può essere strumento di giustizia. E che la cucina solidale antirazzista è un modello replicabile ovunque.
Non mancano le difficoltà. Alcune cucine vengono osteggiate dai vicini, accusate di “portare degrado”. Altre hanno subito controlli fiscali, multe, sgomberi. Ma i volontari non mollano. “Ci dicono che non siamo in regola. Ma cosa vuol dire essere in regola in un Paese che lascia morire di fame?” dice Giorgia, volontaria a Roma.
Anche nelle scuole, iniziano a diffondersi progetti legati al cibo come strumento antirazzista. Alcuni licei hanno organizzato pranzi interculturali, invitando le famiglie degli studenti stranieri a cucinare piatti tipici. In un istituto di Palermo, il comitato studentesco ha lanciato la “Settimana della Cucina Resistente”: ogni giorno un pranzo tematico, una mostra, una testimonianza. L’iniziativa ha unito classi che non si parlavano, insegnanti e bidelli, madri e figli.
A livello nazionale, alcune esperienze sono diventate veri e propri modelli. Come il progetto “Pane per Tutti” a Genova, che serve oltre 150 pasti al giorno, o la “Cucina Popolare Autogestita” di Bari, che ha resistito anche ai tagli e agli sgomberi.
In tutte queste realtà, la parola d’ordine è una sola: dignità. Non si tratta solo di dare da mangiare. Si tratta di creare comunità, di riconoscere l’altro, di rimettere al centro la relazione. Perché in un mondo che disumanizza, servire un piatto caldo è un atto di resistenza.