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domenica, 22 Giugno,2025

Quando la solidarietà salva vite: storie vere di reti antirazziste in Italia

Le reti di solidarietà antirazziste come risposta all’assenza dello Stato

In Italia esistono due narrazioni parallele. La prima è quella che vediamo ogni giorno sui media: l’invasione, il degrado, l’emergenza continua. La seconda è silenziosa, spesso ignorata, ma incredibilmente potente: è fatta di mani che si tendono, cucine che si aprono, associazioni che non mollano, studenti che si organizzano, migranti che aiutano altri migranti. È il Paese che costruisce reti di solidarietà antirazziste, giorno dopo giorno, lontano dai riflettori.

A Torino, un piccolo gruppo di volontari si dà appuntamento ogni giovedì sera davanti alla stazione Porta Nuova. Non hanno una grande organizzazione alle spalle, solo qualche termos di tè caldo, coperte, scarpe, e tanta determinazione. Li chiamano “Quelli del giovedì”, anche se in realtà sono attivi quasi tutti i giorni. Distribuiscono cibo e beni di prima necessità alle persone che vivono per strada, molte delle quali sono migranti appena arrivati, o espulsi dal sistema di accoglienza. Tra loro ci sono anche ex rifugiati che ora aiutano: “Sono stato per mesi in quella piazza, ora tocca a me restituire qualcosa”, racconta Mohamed, originario del Mali.

A Roma, nel quartiere di Tor Bella Monaca, un gruppo di donne ha creato una rete di mutuo aiuto che unisce madri italiane, marocchine, romene e filippine. Non si definiscono un’associazione, ma nei fatti lo sono. Organizzano raccolte alimentari, aiutano a fare i compiti ai bambini, assistono le donne vittime di violenza. “Ci siamo rese conto che aspettare l’intervento delle istituzioni era inutile. Abbiamo deciso di fare da sole”, dice Mariana, una delle fondatrici. Il loro impegno ha contribuito a fermare più di un caso di sfratto e a ricostruire dignità in situazioni estreme.

In Sicilia, a Noto, una parrocchia ha messo a disposizione un’intera ala inutilizzata per accogliere minori non accompagnati. L’iniziativa non è nata da un finanziamento pubblico, ma dalla decisione condivisa di una comunità che ha scelto di aprire le porte. “Abbiamo visto bambini dormire per strada e ci siamo detti: se non ora, quando?”, racconta Don Matteo. Con l’aiuto di volontari, educatori e famiglie del posto, oggi quella struttura è diventata un punto di riferimento per decine di ragazzi, molti dei quali oggi parlano italiano e frequentano la scuola con ottimi risultati.

La rete Baobab Experience a Roma è forse una delle più conosciute. Nata come risposta all’assenza istituzionale, ha gestito per anni un presidio umanitario autorganizzato nel centro della capitale. Senza fondi, ma con centinaia di volontari, Baobab ha accolto migliaia di migranti in transito, offrendo pasti caldi, assistenza medica, orientamento legale. È stata sgomberata più volte, ma ha sempre trovato un modo per rialzarsi. La loro è una forma di resistenza civile e concreta, come raccontato in articoli precedenti su questo sito, ad esempio “Violenza istituzionale sui minori stranieri non accompagnati”.

Nel nord-est, a Udine, il Collettivo Rotte Balcaniche raccoglie testimonianze e aiuti per chi arriva attraversando i confini più duri: quelli orientali. Qui le violenze da parte della polizia croata e slovena sono sistemiche, e i racconti dei migranti parlano di torture, spogliamenti, furti. Le reti locali forniscono riparo, cure, vestiti. “Non ci limitiamo a fornire aiuti materiali: raccogliamo prove, documentiamo, denunciamo”, spiega Luca, attivista. Il loro lavoro ha fatto da ponte tra media e istituzioni europee, contribuendo a inchieste internazionali.

A Milano, la rete Non Una Di Meno ha lavorato più volte fianco a fianco con gruppi di migranti per denunciare la doppia discriminazione che colpisce le donne straniere, vittime di razzismo e sessismo. In una delle loro campagne, si sono unite donne sudamericane, arabe e nigeriane per raccontare storie di lavoro domestico sfruttato, molestie, silenzi. Da quella campagna è nato un vademecum in più lingue su diritti e strumenti di difesa. In parallelo, alcune donne migranti hanno creato gruppi di autoformazione in italiano, cucito solidale e storytelling, per prendere parola e spazio.

Ma la solidarietà non è solo urbana. Anche nei piccoli paesi avvengono cose grandi. A Riace, in Calabria, la storia dell’accoglienza diffusa ha fatto il giro del mondo. Nonostante le polemiche, i processi e le distorsioni politiche, resta il fatto che lì, per anni, persone migranti e residenti locali hanno ricostruito insieme una comunità. Non solo accoglienza: integrazione vera. Scuole riaperte, botteghe rivitalizzate, nuova linfa per un paese che stava morendo. È una delle esperienze di reti di solidarietà antirazziste più potenti e raccontate, perché ha dimostrato che un’altra Italia è possibile.

A Bologna, le realtà universitarie hanno messo in piedi il progetto Refugees Welcome, che abbina studenti e migranti per condividere l’alloggio. Una forma di accoglienza orizzontale e mutuale, dove non c’è chi dà e chi riceve, ma un’esperienza di crescita comune. “Ho imparato più da Amir in due mesi che in un anno di corso”, racconta Giulia, studentessa di Scienze Politiche. In un tempo in cui l’università diventa sempre più costosa e competitiva, la solidarietà tra studenti e rifugiati è anche un atto politico.

Tanti di questi esempi non fanno notizia. Anzi, vengono spesso ostacolati. Alcune reti solidali sono state criminalizzate, altre ignorate, molte faticano a sopravvivere. Ma continuano a esistere perché c’è una verità che non si può ignorare: dove lo Stato manca, le persone si organizzano. E dove c’è razzismo, c’è sempre anche chi resiste. Lo abbiamo visto anche nei casi raccontati su questo sito, come nell’articolo “Quando il razzismo colpisce i più piccoli: storie che non fanno notizia”, dove a salvare bambini emarginati non sono stati i servizi pubblici, ma i vicini di casa, gli insegnanti, i volontari.

La bellezza di queste reti è che sono imperfette, disordinate, ma incredibilmente umane. Si basano su relazioni, fiducia, ascolto. Non sempre funzionano, ma quando lo fanno cambiano le vite. E, spesso, salvano letteralmente le persone.

Chi parla di “buonismo” non ha mai distribuito coperte sotto la pioggia, non ha mai insegnato l’italiano a un minore che ha attraversato il deserto, non ha mai difeso un lavoratore senza documenti da uno sfruttatore. Chi accusa queste reti di essere “ingranaggi dell’immigrazione incontrollata” dimentica che queste stesse persone fanno quello che lo Stato dovrebbe garantire: diritti, dignità, protezione.

Oggi, mentre cresce l’odio online e le disuguaglianze diventano sempre più profonde, queste reti diventano presidi fondamentali. Non solo contro il razzismo, ma contro l’indifferenza. Sono il cuore battente di un’Italia diversa. L’Italia che non ha paura di accogliere. L’Italia che non volta le spalle.

Ed è questo il nostro compito: raccontarla, sostenerla, farla crescere. Perché ogni volta che una persona aiuta un’altra a non sentirsi sola, nasce una possibilità di cambiamento.

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