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domenica, 22 Giugno,2025

Infanzie spezzate nei centri di accoglienza: tra abusi, silenzi e attese infinite

Bambini nei centri di accoglienza: infanzie sospese e diritti negati

I bambini nei centri di accoglienza italiani vivono spesso in condizioni che negano loro un’infanzia dignitosa. Non si tratta solo di emergenze temporanee: è un sistema che, anziché accogliere, spesso spezza. In questi luoghi, tra silenzi e attese infinite, il trauma si annida nei dettagli più invisibili.

C’è un angolo nascosto dell’Italia che nessuno vuole guardare troppo a lungo. Un luogo in cui il tempo scorre lento, le voci si abbassano e le porte si chiudono. È dentro quei centri di accoglienza dove ogni giorno decine di bambini vivono sospesi, dimenticati, invisibili. Non si tratta solo di emergenze o di disorganizzazione: si tratta di un sistema che, spesso, anziché accogliere, annienta. E tra quelle mura, il trauma si annida nei dettagli più silenziosi.

Nei corridoi stretti di alcune strutture, le risate dei bambini si sentono poco. Alcuni hanno attraversato il mare, altri hanno perso i genitori per strada, altri ancora sono semplicemente “figli di migranti”. Ma ciò che li accomuna è la vita congelata in una sorta di attesa infinita: un permesso, un trasferimento, una decisione. Nel frattempo, l’infanzia viene erosa.

Una ragazza eritrea di 9 anni, incontrata in un centro del sud Italia, non parlava più da settimane. Nessuno sapeva se fosse per il viaggio, per quello che aveva visto, o per quello che aveva subito. Nessun supporto psicologico era previsto in quella struttura. Nessun mediatore culturale fisso. I volontari facevano il possibile, ma senza risorse adeguate è difficile restituire dignità a chi ha già perso troppo.

In alcuni casi, i centri non sono nemmeno adatti ad accogliere minori. Manca uno spazio per giocare, una figura di riferimento, un’assistenza scolastica. Alcuni bambini vengono spostati da un centro all’altro in pochi mesi, senza tempo per creare legami, amicizie, routine. Ogni spostamento è uno sradicamento, un’altra frattura. Si parla spesso dei “bambini rom”, dei “bambini migranti”, ma raramente si ascolta ciò che hanno da dire. Le istituzioni, nella maggior parte dei casi, trattano i minori stranieri come appendici dei genitori richiedenti asilo, come corpi da collocare. Non come persone.

Eppure le storie ci sono, e fanno male. Un ragazzo marocchino di 13 anni ha raccontato a un’associazione che da mesi non riusciva più a dormire: nel centro, le urla notturne erano frequenti, le liti tra adulti inevitabili, e lui si chiudeva in bagno per cercare silenzio. “Qui ho imparato che nessuno ti salva. Devi salvarti da solo”, ha detto. Parole che nessun bambino dovrebbe mai dire.

Molti operatori lo sanno. Alcuni denunciano. Altri, esausti, tacciono. Il problema è sistemico: fondi insufficienti, mancanza di controlli, appalti assegnati con leggerezza. Non è raro che centri per adulti vengano “adattati” ad accogliere bambini, senza alcuna valutazione seria. Mancano figure specializzate. Manca empatia istituzionale.

In un Paese dove si dibatte su ius soli e cittadinanza, si dimentica troppo facilmente che molti bambini crescono tra le sbarre invisibili dell’accoglienza istituzionale. Alcuni diventano maggiorenni dentro quei centri, senza aver mai conosciuto una vera casa, una vera scuola, un affetto stabile. La conseguenza è un’intera generazione di giovani feriti, disillusi, arrabbiati. E non è un destino inevitabile: è una responsabilità collettiva.

L’articolo pubblicato su Antirazzismo.com intitolato “Quando il razzismo colpisce i più piccoli: storie che non fanno notizia” ha mostrato come la discriminazione verso i minori non sia un’eccezione. Nei centri, questa realtà si acuisce, perché è mascherata da “ospitalità”. Ma ospitare non significa parcheggiare. Non significa sopravvivere.

Ci sono testimonianze di bambini che hanno subito abusi all’interno dei centri. Denunce archiviate. Voci ignorate. Il sistema fa fatica a distinguere tra chi è veramente preparato ad accogliere e chi, invece, gestisce i centri come un business. Perché, in molti casi, l’accoglienza è affidata a enti privati che lavorano con logiche aziendali, non educative.

L’Unicef e Save the Children hanno più volte denunciato la mancanza di protocolli per l’ascolto dei minori nei centri. Eppure si continua a ignorare il problema. Forse perché i bambini stranieri non votano. O forse perché il loro dolore è troppo scomodo.

Nelle scuole italiane, alcuni di questi bambini riescono comunque ad arrivarci. Ma il ritardo educativo è enorme. Alcuni non parlano italiano, altri non sono mai stati in classe prima. L’isolamento continua. Il bullismo razzista, come raccontato nell’articolo “Il bullismo razzista nelle scuole primarie: come riconoscerlo”, si insinua anche lì, dove i bambini dovrebbero sentirsi al sicuro. Le ferite si moltiplicano.

Ciò che serve è un cambio radicale: strutture specializzate, personale formato, ascolto attivo, monitoraggio costante. E soprattutto una visione: accogliere un bambino significa aiutarlo a crescere, non a sopravvivere. Non basta più “non fare male”: bisogna iniziare a fare bene.

Ma finché i centri resteranno luoghi opachi, lontani dagli occhi dell’opinione pubblica, questi bambini resteranno numeri nei report, ombre nei corridoi, sguardi che nessuno incrocia. L’Italia ha il dovere di guardarli in faccia. E di cambiare rotta.

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