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domenica, 22 Giugno,2025

Moschee sotto assedio: tra burocrazia, vandalismi e chiusure mascherate

Moschee e islamofobia: tra burocrazia, vandalismi e chiusure mascherate

La moschea è il cuore di una comunità musulmana. Un luogo di preghiera, incontro, studio, assistenza. Eppure, in Europa, sempre più spesso è trattata come una minaccia. Non è solo l’odio dei singoli a colpirla, ma una macchina più grande: quella dell’islamofobia istituzionalizzata, che opera in silenzio tra leggi, regolamenti, controlli e omissioni.

Luoghi sacri nel mirino

Nel cuore di città come Berlino, Parigi, Torino o Bruxelles, interi quartieri sono sorretti dal lavoro invisibile delle moschee: raccolte alimentari, aiuto ai poveri, scuole serali per bambini, mediazione culturale. Eppure, a ogni nuova richiesta di apertura, il primo ostacolo è la burocrazia. Regole urbanistiche che cambiano all’improvviso. Norme sulla capienza che si irrigidiscono solo per loro. Costi inaccessibili per adeguamenti richiesti senza preavviso. Si parla di trasparenza, ma le risposte sono spesso arbitrarie.

In Italia, molti centri islamici operano in edifici adattati: ex garage, magazzini, scantinati. Non per scelta, ma per necessità. Le amministrazioni rifiutano l’assegnazione di spazi idonei, lasciando che la mancanza di agibilità diventi il pretesto per chiuderli.

La “legge anti-moschee” e i suoi cloni

In Lombardia, una legge regionale ha introdotto criteri urbanistici così rigidi da rendere praticamente impossibile costruire nuovi luoghi di culto non cattolici. Per edificare una moschea occorre prevedere parcheggi multipli, distanze minime da altri edifici religiosi, impianti tecnologici particolari. Nessuna di queste richieste è imposta, ad esempio, a una cappella evangelica o a una chiesa parrocchiale.

Il messaggio è chiaro: le moschee non sono benvenute. E quando non si può impedire di costruirle, si rallenta. Si paralizzano i cantieri. Si “perde” la documentazione. Si rimbalza la responsabilità da un ufficio all’altro.

Vandalismi ignorati, insulti tollerati

Se i muri delle sinagoghe o delle chiese venissero imbrattati con svastiche, l’indignazione sarebbe immediata. Quando accade a una moschea, le reazioni sono tiepide, distratte. Decine di luoghi di culto musulmani in Europa subiscono vandalismi ogni anno: finestre spaccate, portoni incendiati, scritte islamofobe, carcasse di maiali lasciate all’ingresso. E spesso tutto finisce nel silenzio.

A Marsiglia, nel 2023, una moschea è stata colpita da un ordigno rudimentale. Nessun morto, per fortuna, ma la notizia è scomparsa dai media in meno di 48 ore. A Roma, la grande moschea è stata oggetto di decine di proteste da parte dell’estrema destra, con slogan e striscioni razzisti, senza che le autorità intervenissero per fermare l’incitamento all’odio.

Controlli selettivi e criminalizzazione

Non tutte le religioni sono sorvegliate allo stesso modo. Le moschee sono spesso sottoposte a controlli fiscali, sanitari, e amministrativi con una frequenza superiore rispetto ad altri luoghi di culto. Le autorità parlano di “prevenzione al radicalismo”. Ma i risultati di questi controlli raramente portano alla scoperta di attività illegali. Piuttosto, servono a costruire una narrativa: quella della moschea come spazio sospetto, opaco, da monitorare.

In Francia, decine di moschee sono state chiuse nel nome della “lotta al separatismo”. Nessuna di esse è stata successivamente accusata di reati gravi. Le chiusure si basano su motivazioni vaghe: “predicazioni non conformi ai valori repubblicani”, “presunti legami con gruppi salafiti”, “ambiente non inclusivo”.

Il doppio standard europeo

I governi europei parlano spesso di libertà religiosa. Ma quella promessa si arena davanti ai cittadini musulmani. Quando una moschea chiede di ampliare i suoi spazi per accogliere più fedeli, la risposta è il diniego per “mancanza di impatto ambientale”. Quando una parrocchia fa lo stesso, si parla di “comunità in crescita”. Quando una moschea raccoglie donazioni, si attiva la guardia di finanza. Quando lo fa un convento, si parla di “solidarietà cristiana”.

La strategia dell’invisibilità

Molti centri islamici scelgono di non chiamarsi più “moschee”. Si presentano come “associazioni culturali”, “centri di aggregazione”, “spazi comunitari”. Non è mimetismo, è sopravvivenza. Usare la parola “moschea” può comportare ritardi, sospetti, indagini. Rinunciare al proprio nome diventa una forma estrema di adattamento forzato. Ma anche questa invisibilità ha un costo: la dignità.

Voci dalla resistenza

A Milano, l’imam Yahya Pallavicini ha dichiarato: “Ci chiedono trasparenza, ma nessuno ci chiede come aiutiamo chi perde il lavoro, come supportiamo le famiglie. La moschea non è solo un edificio: è una casa aperta”.

A Colonia, la comunità turco-tedesca ha costruito una delle più grandi moschee d’Europa. Per anni, il progetto è stato ostacolato. Oggi, la struttura è finalmente aperta, ma ogni venerdì riceve minacce anonime. “Resistere è pregare”, dice una volontaria.

A Bruxelles, nel quartiere di Molenbeek, decine di ragazzi musulmani difendono il diritto di avere spazi propri. “Vogliono che preghiamo, ma in silenzio e senza dare fastidio. Noi vogliamo pregare e vivere. Insieme”.

La chiusura mascherata

Molte moschee non sono chiuse con decreto. Vengono spente poco a poco. Multe sproporzionate. Ordinanze sull’orario. Limitazioni all’uso del microfono. Ispezioni continue. Revoca della convenzione con il comune. Alla fine, la comunità si arrende. Cambia sede, si riduce, scompare. È una chiusura senza rumore. Una rimozione silenziosa.

Una questione di diritti

Il diritto alla libertà religiosa non è un optional. È un pilastro della democrazia. Eppure, quando si parla di Islam, questo diritto diventa fragile. Negato. Contrattato. Condizionato. Le moschee non sono basi terroristiche, non sono centri di propaganda. Sono luoghi di pace. Ma l’Europa continua a vederle come “altro”. Come corpo estraneo. Come minaccia.

Conclusione: riaprire gli occhi

Difendere le moschee significa difendere il diritto di esistere per milioni di cittadini europei. Significa riconoscere che l’Islam è parte integrante dell’Europa. Che le persone musulmane non sono ospiti, ma concittadini. E che una società che teme la preghiera ha già smarrito la sua libertà.

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