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domenica, 22 Giugno,2025

Islamofobia e politica europea: leggi, retorica e discriminazioni normalizzate

Islamofobia e politica europea: come il potere legittima la discriminazione

Nel cuore dell’Europa democratica, nei palazzi delle istituzioni che si professano custodi dei diritti umani, si sta consolidando un paradosso silenzioso e inquietante: l’islamofobia non è più solo un sentimento diffuso, ma una componente strutturale della politica. Leggi, decreti, regolamenti, decisioni amministrative e discorsi ufficiali contribuiscono sempre più a normalizzare la discriminazione nei confronti delle persone musulmane. Non si tratta di singoli episodi o scivoloni retorici: è un processo sistemico, sedimentato, a volte deliberato, a volte subdolo.

Questo articolo vuole affrontare in profondità il rapporto tra islamofobia e politica europea, andando oltre i titoli di giornale e scavando nei testi normativi, nelle pratiche amministrative, nella retorica pubblica e nelle conseguenze materiali di queste dinamiche. È un viaggio tra leggi che escludono, parole che feriscono e decisioni che umiliano milioni di cittadini europei musulmani. E lo faremo con uno sguardo lucido, documentato, narrativo. Perché raccontare è già resistere.

La lunga marcia della paura: da emergenza a sistema

Dalla fine degli anni Novanta in poi, la figura del “musulmano” ha progressivamente assunto nei discorsi politici europei il ruolo di minaccia interna. Prima come “immigrato non integrato”, poi come “radicalizzato”, infine come potenziale terrorista. Gli attentati di Madrid (2004), Londra (2005), Parigi (2015), Bruxelles (2016) hanno agito da acceleratori, ma non hanno inventato nulla. La cornice era già pronta.

Quello che è avvenuto negli ultimi vent’anni è stato un lento slittamento semantico: dall’Islam come religione al musulmano come soggetto problematico, e infine al musulmano come soggetto da controllare, limitare, riformare. In questo percorso, i partiti politici – sia di destra che di centrosinistra – hanno costruito il consenso su una narrativa securitaria, in cui la religione islamica viene spesso trattata come un’eccezione alla regola democratica.

Lo abbiamo visto nel nostro articolo Islamofobia in Europa: il razzismo nascosto sotto il velo della sicurezza: la parola chiave è sempre la stessa, “sicurezza”. Una sicurezza declinata in senso esclusivo, identitario, in cui l’Islam diventa il problema da risolvere, l’elemento da contenere. È da qui che nasce la legittimazione politica della discriminazione.

La legge contro il velo: la politica del corpo controllato

In Francia, Belgio, Svizzera, Paesi Bassi e in parte anche in Germania, il divieto del velo integrale (burqa e niqab) è stato uno dei primi segnali della trasformazione dell’islamofobia in politica normativa. La motivazione ufficiale è quasi sempre la stessa: sicurezza, laicità, emancipazione femminile. Ma le conseguenze reali sono altre: esclusione sociale, sanzioni economiche, stigmatizzazione.

Il divieto del velo integrale in spazi pubblici, lungi dall’essere una misura neutrale, ha funzionato come grimaldello per una più ampia serie di restrizioni che hanno coinvolto anche il semplice hijab. In Francia, per esempio, le studentesse non possono portare il velo nelle scuole pubbliche dal 2004. Una misura che ha spinto molte ragazze a ritirarsi dal percorso scolastico o a vivere una doppia vita: libere a casa, costrette fuori.

Dietro questa politica del corpo femminile si nasconde una pretesa di assimilazione che nega la libertà individuale. Come raccontato nell’articolo Donne musulmane e discriminazione: una lotta quotidiana tra razzismo e sessismo, sono le donne a pagare il prezzo più alto: escluse dal lavoro, dalla scuola, dalla rappresentanza pubblica.

Propaganda elettorale e populismo islamofobo

In molti Paesi europei, l’islamofobia è diventata un cavallo di battaglia nelle campagne elettorali. Dai populisti di destra ai conservatori più istituzionali, le promesse di leggi più severe sull’immigrazione, di chiusura delle moschee “radicali”, di divieti su abiti religiosi, raccolgono consenso tra l’elettorato alimentato dalla paura.

I partiti come Rassemblement National in Francia, l’AfD in Germania, il PVV nei Paesi Bassi, Vox in Spagna e persino la Lega in Italia, costruiscono parte del loro consenso su narrazioni che associano l’Islam a insicurezza, degrado urbano, arretratezza culturale. Ma non sono soli. Anche partiti più moderati si sono adeguati a questa retorica, cercando di non perdere terreno.

Il risultato è una rincorsa al ribasso, dove i diritti delle minoranze vengono sacrificati sull’altare del consenso. Le persone musulmane vengono ridotte a strumenti di propaganda, e la loro presenza diventa una questione “da risolvere” piuttosto che una realtà da rispettare.

Moschee sotto assedio: chiusure, controlli, delegittimazione

Un’altra manifestazione dell’islamofobia istituzionale è l’attacco sistematico alle moschee e ai centri culturali islamici. In Francia, dopo gli attentati del 2020, sono state chiuse decine di moschee sulla base di sospetti generici. Il Ministro dell’Interno ha parlato apertamente di “guerra contro l’islamismo separatista”, ma nella pratica la repressione ha colpito luoghi di culto e associazioni perfettamente legittime.

Controlli fiscali, ispezioni sanitarie, indagini sui sermoni: strumenti apparentemente neutri vengono usati in modo selettivo contro le comunità musulmane. Si cerca il pretesto per chiudere, per intimidire, per spingere alla disgregazione interna.

Molti imam vengono espulsi o perseguiti non per atti violenti, ma per opinioni espresse. Si configura così un sistema di sorveglianza etnica, dove professare la propria fede diventa un rischio. Il diritto alla libertà religiosa, sancito da tutte le costituzioni europee, viene violato sistematicamente con la complicità della politica.

Laicità selettiva: un’arma contro l’Islam

Un capitolo a parte merita la strumentalizzazione della laicità. In Paesi come la Francia, la laïcité – principio di separazione tra Stato e religioni – viene invocata non come garanzia di libertà, ma come scudo contro l’Islam. Si pretende neutralità solo da chi è già marginalizzato.

La croce cristiana o il presepe sono difesi come “tradizione culturale”, mentre il velo o la preghiera musulmana diventano “provocazione”. Si impone così una gerarchia simbolica che stabilisce chi può esprimere la propria fede e chi no. È una laicità a geometria variabile, che serve a conservare un’identità nazionale bianca, cristiana, maggioritaria.

Ma questa visione della laicità non solo è ipocrita: è pericolosa. Trasforma un principio di emancipazione in uno strumento di repressione. E rafforza l’idea che l’Islam non sia compatibile con i valori europei, alimentando così proprio quei conflitti che si dice di voler evitare.

Le conseguenze materiali: scuola, lavoro, cittadinanza

L’islamofobia politica non è solo discorso o simbolo: ha conseguenze quotidiane tangibili. Molti giovani musulmani in Europa crescono in quartieri stigmatizzati, frequentano scuole pubbliche dove i pregiudizi degli insegnanti influenzano la valutazione, affrontano discriminazioni sul lavoro e barriere amministrative nel percorso verso la cittadinanza.

Uno studio della Commissione Europea ha rilevato che persone con nomi arabi ricevono il 40% di chiamate in meno nei colloqui di lavoro rispetto a candidati con nomi “nativi” a parità di competenze. In Germania e in Danimarca, è documentata l’esistenza di meccanismi selettivi negli affitti e nell’accesso a servizi pubblici.

Nel nostro articolo Islamofobia a scuola: pregiudizi, esclusione e resistenza tra i banchi in Europa, abbiamo raccontato la realtà delle scuole dove le bambine con hijab vengono invitate a toglierlo, dove i ragazzi musulmani sono visti come soggetti a rischio o futuri estremisti. È questa la scuola che la politica rende possibile.

Anche la cittadinanza è un campo di battaglia. In Francia e nei Paesi Bassi, chi presenta domanda di cittadinanza può vedersela rifiutata per “mancata adesione ai valori della Repubblica” se porta il velo o partecipa ad attività religiose. Una discriminazione sottile, ma devastante, che priva di diritti fondamentali migliaia di persone.

Casi studio: Francia e Danimarca a confronto

Francia: laicità come esclusione

La Francia è probabilmente il caso più emblematico di islamofobia istituzionalizzata in Europa. Il concetto di laïcité, storicamente nato per tutelare tutte le fedi dalla pressione statale, è stato progressivamente manipolato per giustificare l’esclusione delle persone musulmane dallo spazio pubblico. Il divieto del velo a scuola (2004), nei luoghi pubblici (2010), per le accompagnatrici scolastiche, e perfino per le atlete in competizioni federali, compone una catena normativa che penalizza in particolare le donne musulmane.

L’azione dello Stato francese ha colpito anche le moschee, le scuole islamiche indipendenti, le mense halal e molte associazioni. Secondo Human Rights Watch, oltre 700 strutture islamiche sono state chiuse tra il 2017 e il 2022 con motivazioni spesso generiche legate alla “radicalizzazione”. La conseguenza è un clima di sospetto sistemico che colpisce ogni forma di autonomia culturale e religiosa.

Danimarca: dal welfare all’esclusione etnica

La Danimarca, un tempo celebrata per il suo modello di welfare inclusivo, è oggi al centro di un esperimento politico che molti analisti definiscono come un caso di apartheid sociale. Dal 2010, il governo danese ha introdotto le cosiddette “liste dei ghetti”, elenchi ufficiali di quartieri urbani dove la popolazione “non occidentale” supera determinate soglie demografiche e socioeconomiche.

In questi quartieri – abitati in gran parte da famiglie musulmane – sono state introdotte leggi speciali: pene più severe per gli stessi reati rispetto al resto del Paese, sgomberi e demolizioni di alloggi popolari, obbligo di inserimento precoce dei bambini in programmi di “educazione culturale danese” fin dai 12 mesi di età. Le autorità motivano queste misure con il bisogno di prevenire la segregazione, ma di fatto alimentano un sistema di marginalizzazione legalizzata.

Nel 2021, una riforma ha ribattezzato questi quartieri come “aree parallele” e ha fissato l’obiettivo esplicito di ridurre la percentuale di residenti “non occidentali” al di sotto del 30%. Ciò ha comportato l’allontanamento forzato di centinaia di famiglie, la perdita di reti sociali consolidate e un crescente senso di insicurezza e ingiustizia tra i residenti.

Anche l’accesso alla cittadinanza è diventato un percorso a ostacoli. Tra i criteri valutativi non figurano solo la lingua o il lavoro, ma anche la moralità soggettiva: un legame con una moschea, l’uso del velo, o persino l’assenza di stretti contatti con cittadini danesi può compromettere la domanda. La Danimarca è così diventata un laboratorio europeo della discriminazione istituzionale, dove l’Islam non viene trattato come una religione, ma come una deviazione da correggere.

Resistenze civili, contropoteri e visioni alternative

Nonostante la pressione crescente dell’islamofobia istituzionale, in tutta Europa si moltiplicano le forme di resistenza civile. Associazioni, comitati, collettivi, intellettuali, avvocati e insegnanti si organizzano per difendere i diritti delle persone musulmane e contrastare la discriminazione sistemica.

In Francia, gruppi come il CCIF (Collectif contre l’islamophobie en France) – pur se sciolto nel 2020 con decreto governativo – hanno tracciato la strada per un’attività legale e comunicativa efficace. In Belgio e nei Paesi Bassi, associazioni di giovani musulmani producono podcast, riviste e materiali educativi per decostruire stereotipi e rivendicare la propria identità come parte integrante delle società europee.

Anche il mondo accademico sta reagendo. Cresce la letteratura critica che indaga le radici coloniali della laicità europea, i dispositivi di sorveglianza razziale e i limiti della democrazia liberale nel garantire vera uguaglianza. Questa produzione teorica si intreccia spesso con l’attivismo, dando forza e legittimità ai movimenti dal basso.

Sul fronte politico, in alcuni contesti emergono voci coraggiose. Europarlamentari, consiglieri comunali e attivisti locali denunciano apertamente le derive islamofobe, chiedono moratorie sui divieti del velo, difendono il diritto di culto. In alcune città, come Londra, Barcellona o Malmö, si sperimentano modelli di inclusione urbana, partecipazione e mediazione culturale.

Ma forse la forma più potente di resistenza è quella quotidiana: le ragazze che continuano a portare il velo nonostante la stigmatizzazione, le famiglie che difendono i propri spazi religiosi e culturali, i ragazzi che parlano arabo con orgoglio nei corridoi delle scuole. Ogni gesto di autodeterminazione, in questo contesto, è un atto politico.

Il futuro dell’Europa passa anche da qui: dalla capacità di costruire una società dove la diversità non sia solo tollerata, ma valorizzata. Dove la fede non sia un motivo di sospetto, ma un elemento tra tanti che compongono l’identità. Dove il potere politico non alimenti la paura, ma protegga la dignità.

È una sfida complessa, ma necessaria. E il primo passo è raccontare la verità.

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