Il razzismo in Italia non si manifesta solo con insulti per strada o con gesti plateali. È più subdolo, silenzioso, sistemico. Vive nei moduli, nei regolamenti, nelle stanze delle istituzioni. Vive nelle prassi, nei silenzi, nelle omissioni. Ed è proprio lì che fa più danni: dove è difficile da vedere, e più ancora da combattere.
Le radici di un sistema che discrimina
L’Italia si racconta spesso come un paese accogliente, crocevia di culture, ponte tra Nord e Sud del mondo. Ma dietro questa narrazione si nasconde una realtà complessa, dove le persone non bianche, straniere, rom, musulmane, nere, migranti o semplicemente percepite come “altre” vengono sistematicamente marginalizzate.
Dall’unità d’Italia fino alle recenti ondate migratorie, lo Stato ha sempre gestito la diversità come un problema da contenere, non come una ricchezza da valorizzare. Dalle leggi coloniali fasciste alla legge Bossi-Fini, dalle prigioni libiche finanziate dal governo italiano fino al sistema dei CPR, la gestione dell’alterità è sempre stata autoritaria, spesso violenta, raramente inclusiva.
Scuola: dove inizia la disuguaglianza
Si parla spesso di integrazione scolastica, ma per molti bambini figli di migranti, o con pelle scura, la scuola italiana è un luogo di esclusione. Le classi ghetto sono una realtà ignorata dai piani ministeriali. In molte scuole, i bambini stranieri vengono sistematicamente concentrati in alcune sezioni, con la scusa di “facilitare l’insegnamento”. Ma il risultato è una segregazione invisibile.
Poi c’è il problema dei libri di testo: ancora oggi, in molti sussidiari si parla di Africa come terra di savana e povertà, di Islam come religione problematica, di storia italiana come se fosse bianca e cattolica per definizione.
E c’è il razzismo dei docenti, troppo spesso ignorato. Un ragazzo con la pelle scura che viene chiamato “extracomunitario” anche se nato in Italia, una bambina con il velo trattata come un caso problematico. Piccoli gesti quotidiani che sommano anni di esclusione.
Sanità: quando l’accesso diventa privilegio
La Costituzione italiana garantisce il diritto alla salute. Ma nella pratica, non è così per tutti. I cittadini stranieri extracomunitari devono affrontare una burocrazia opaca per accedere ai servizi. E molti, pur avendo diritto al medico di base, rinunciano per paura: paura di essere segnalati, paura di perdere il lavoro, paura di non essere creduti.
Le donne musulmane raccontano di ginecologi che ridono del velo o rifiutano di spiegare le procedure mediche. Gli uomini neri denunciano tempi di attesa più lunghi, diagnosi approssimative, sguardi di sospetto.
In molte regioni italiane, i mediatori culturali mancano. Le informazioni non sono disponibili in altre lingue. Gli ospedali sono impreparati ad affrontare con competenza le diversità culturali. Non si tratta solo di razzismo individuale: è razzismo istituzionale.
Forze dell’ordine e profiling razziale
Essere fermati per un controllo senza motivo, solo per il colore della pelle, è un’esperienza comune per molti giovani neri o arabi in Italia. Si chiama profiling razziale, ed è una pratica illegale. Ma diffusa.
Chi viene da una periferia ed è nero, chi ha tratti “non italiani”, chi indossa un velo o ha un accento straniero è più spesso fermato, perquisito, interrogato. Non per comportamenti sospetti, ma per apparenza.
In molti casi, questi controlli sfociano in violenza verbale o fisica. Ma raramente vengono denunciati. Le denunce cadono nel vuoto, gli agenti non vengono sospesi, e le procure archiviano.
È lo Stato a voltarsi dall’altra parte. A normalizzare. A legittimare.
I CPR: prigioni senza reato
I Centri di Permanenza per il Rimpatrio sono il cuore oscuro del razzismo istituzionale italiano. Persone che non hanno commesso reati vengono rinchiuse per mesi, a volte per anni, in strutture fatiscenti, senza sapere quando e se usciranno. Solo perché non hanno i “documenti giusti”.
Dentro i CPR si muore. Letteralmente. Per incendi, per suicidi, per malasanità. Ma i giornali non ne parlano. I politici tacciono. E l’opinione pubblica dimentica. Perché quelle vite, nel nostro sistema, valgono meno.
Media e narrazione tossica
Il modo in cui i media parlano di immigrazione è un altro strumento istituzionale di razzismo. Ogni volta che un ragazzo straniero commette un reato, la sua nazionalità finisce nel titolo. Se è italiano, no. Se è nero, diventa la notizia. Se è bianco, viene nascosto.
Il telegiornale parla di “ondata di immigrati” anche se sono 100 persone. Parla di “minaccia” anche quando si tratta di famiglie con bambini. I talk show mettono sullo stesso piano chi invoca lager e chi difende i diritti umani, in nome di un finto equilibrio.
Così il razzismo viene normalizzato. Così diventa senso comune. Così viene legittimato.
Leggi discriminatorie: la cittadinanza negata
Chi nasce in Italia da genitori stranieri non ha automaticamente la cittadinanza. Anche se ha studiato qui, ha amici italiani, parla solo l’italiano. Deve aspettare i 18 anni e fare domanda. E se sbaglia qualcosa, può essere respinto.
Il cosiddetto ius sanguinis esclude centinaia di migliaia di ragazzi, che crescono sentendosi italiani ma vengono trattati come stranieri. Una discriminazione legale, che crea cittadini di serie A e di serie B.
E poi c’è la legge Bossi-Fini, che lega il permesso di soggiorno al contratto di lavoro. Un sistema che trasforma i migranti in ricattabili, che impedisce loro di denunciare abusi sul lavoro per paura di perdere i documenti.
L’ipocrisia della politica
La politica italiana cavalca la paura dell’altro. Interi partiti fondano il proprio consenso sulla criminalizzazione dei migranti, dei rom, delle minoranze religiose. Parlano di “difesa dell’identità italiana” mentre attaccano la Costituzione.
Ma anche i governi progressisti non hanno mai cancellato le leggi più discriminatorie. Hanno preferito il compromesso, il silenzio, la prudenza. E il razzismo ha continuato a crescere, alimentato da istituzioni che non cambiano.
Il silenzio complice della società
Il problema più grande è l’indifferenza. L’idea che “non sia un problema mio”. Il razzismo in Italia sopravvive perché molti non lo vedono. O fingono di non vederlo. Perché non colpisce loro. Perché non riguarda la loro famiglia, il loro quartiere, la loro pelle.
Ma il razzismo istituzionale ci riguarda tutti. È un problema democratico. È un problema costituzionale. È un problema umano.
Serve una presa di coscienza collettiva
Non basta dire “non sono razzista”. Serve agire. Serve denunciare. Serve cambiare le istituzioni. Serve educare. Serve ascoltare chi il razzismo lo subisce ogni giorno. Serve riconoscere che esiste.
Perché finché lo negheremo, continueremo a normalizzarlo. E finché lo normalizzeremo, continueremo a riprodurlo.