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domenica, 22 Giugno,2025

Islamofobia e infanzia: bambini musulmani nel mirino tra sospetto e esclusione

Islamofobia e infanzia: bambini musulmani nel mirino tra sospetto e esclusione

Hanno sei, otto, dieci anni. Vanno a scuola, ridono, giocano, disegnano arcobaleni e imparano le tabelline. Ma se il loro nome è Mohammed o Aisha, se a pranzo non mangiano carne di maiale, se a casa parlano anche l’arabo o il bengalese, tutto cambia. Inizia un’altra infanzia: quella vissuta sotto il segno del sospetto.

L’islamofobia non è una minaccia lontana per i bambini musulmani. È una realtà quotidiana, subdola, sistemica. Entra nelle aule scolastiche, nei consultori, nei giochi al parco. Assume forme diverse: battute apparentemente innocue, esclusioni invisibili, segnalazioni infondate ai servizi sociali. Ma l’effetto è sempre lo stesso: la costruzione lenta e dolorosa di un’identità respinta.

Quando l’infanzia è sospetta

In molte scuole europee, il solo fatto di essere musulmani basta a trasformare i bambini in potenziali problemi. Maestra che storpia il nome “Fatima”, ridendoci sopra. Compagni che chiedono se “il papà fa il terrorista”. Docenti che evitano di includerli nelle attività festive, “per non urtare la sensibilità”. Ma il risultato è l’opposto: isolamento.

In Francia, una bambina di 9 anni è stata sospesa da scuola per aver risposto “Allahu akbar” durante una poesia che parlava del creato. In Germania, un bambino è stato interrogato dai servizi sociali perché a mensa aveva detto che il Ramadan “serve a purificare il corpo”. In Italia, una bambina velata è stata ripresa pubblicamente dal preside: “Questa è una scuola laica, qui non si portano simboli religiosi”.

I sospetti travestiti da protezione

Dietro ogni segnalazione “per il bene del minore” si nasconde talvolta un pregiudizio. I servizi sociali ricevono denunce perché “la madre è troppo sottomessa”, “il padre ha la barba lunga”, “la bambina sembra troppo chiusa”. Vengono aperti fascicoli, effettuate visite domiciliari, interrogati i genitori. Non emerge nulla, ma intanto il danno è fatto: i bambini vivono l’ansia, il terrore di essere portati via.

Nel Regno Unito, il programma “Prevent” ha spinto centinaia di scuole a segnalare bambini musulmani per presunto rischio di radicalizzazione. Un bambino di 4 anni è stato convocato perché aveva disegnato una spada e scritto “casa di Allah” al contrario. Gli insegnanti l’hanno considerato un campanello d’allarme.

Gli stereotipi che entrano nei libri

Nei testi scolastici l’Islam è spesso rappresentato con immagini stereotipate: deserto, tende, uomini armati, donne coperte. Non si parla di cultura, poesia, architettura, scienza. Ai bambini musulmani viene sottratto il diritto a vedersi riflessi nella storia comune. E ai loro compagni viene insegnato, implicitamente, che sono “altri”.

Anche nei disegni e nelle letture, le famiglie rappresentate sono sempre bianche, cristiane, borghesi. Le uniche volte in cui compaiono personaggi musulmani è per spiegare “il diverso”, “la tolleranza”, “l’integrazione”. Come se non fossero già parte integrante della società.

Esclusi dai giochi, dal cibo, dalla festa

Le feste scolastiche diventano spesso occasioni di discriminazione: i bambini musulmani sono invitati a non partecipare, oppure obbligati a fare ciò che viola le loro convinzioni. Chi non mangia il panettone viene guardato con fastidio. Chi digiuna a Ramadan viene rimproverato per mancanza di energia. Chi indossa l’hijab è “fuori luogo”.

Alcuni bambini interiorizzano la vergogna. Smorzano il proprio accento. Chiedono ai genitori di non parlare arabo al telefono. Evitano di portare amici a casa. Si costruiscono una doppia identità: una per la scuola, una per casa. Ed entrambe iniziano a tremare.

Discriminati anche nel gioco libero

Nei parchi pubblici, nelle attività sportive, nei gruppi scout, l’islamofobia colpisce con la sua forza più brutale. “Non giocate con lei, è straniera”. “Tu non puoi fare il portiere, sei troppo nero”. “Tuo padre prega per fare la guerra, non per Dio”.

Molti genitori musulmani decidono allora di non iscrivere più i figli a corsi di musica, danza, nuoto. Non perché non vogliano. Ma perché temono che i loro figli vengano umiliati. L’autoesclusione diventa difesa. E la società applaude la “mancata integrazione” che ha contribuito a costruire.

Il trauma invisibile

I bambini non parlano sempre di quello che vivono. Ma lo portano dentro. Insonnia, ansia da prestazione, tic nervosi, isolamento sociale, rifiuto del proprio nome o della propria lingua madre. I segnali ci sono, ma pochi li riconoscono come effetto della discriminazione.

La psicologia infantile ha dimostrato che il razzismo sistemico ha effetti devastanti sullo sviluppo. Quando l’identità viene rifiutata, il bambino smette di esplorare il mondo. Si ritrae. Si colpevolizza. Cresce con l’idea di non essere degno.

Resistenza quotidiana

Eppure, esistono storie di resistenza. Famiglie che lottano per il diritto dei loro figli a essere visibili e accettati. Scuole inclusive che lavorano su programmi interculturali reali, non di facciata. Insegnanti che imparano i nomi arabi e li pronunciano bene. Psicologi che aiutano i bambini a dare un nome a ciò che vivono: islamofobia.

Una madre marocchina a Bologna ha portato a scuola i datteri del Ramadan e ha spiegato a tutta la classe il significato del digiuno. Un insegnante di religione a Bruxelles ha invitato genitori di diverse fedi a raccontare la propria spiritualità. Un gruppo di bambini in una scuola di Lione ha creato un giornalino con storie ispirate alle proprie culture d’origine.

Una questione di giustizia

Tutelare i bambini musulmani dall’islamofobia non è una gentile concessione. È un dovere giuridico, educativo e morale. Vuol dire difendere il diritto all’infanzia, all’identità, alla dignità. Vuol dire scegliere di essere una società che protegge chi è più vulnerabile, non che lo condanna al silenzio.

Conclusione: riconoscere per cambiare

L’islamofobia infanzia esiste. È reale. È quotidiana. E continua a colpire finché non la nominiamo. Finché non decidiamo che ogni bambino ha il diritto di crescere amato, rispettato, rappresentato. A prescindere dal nome che porta, dalla lingua che parla, dal Dio a cui rivolge le mani.

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