back to top
20.5 C
Torino
domenica, 22 Giugno,2025

Islamofobia a scuola: pregiudizi, esclusione e resistenza tra i banchi in Europa

Islamofobia a scuola: pregiudizi, esclusione e resistenza tra i banchi in Europa

In una classe delle medie in provincia di Torino, una bambina musulmana si siede sempre nell’ultima fila. Non perché lo voglia, ma perché ha imparato a non farsi notare. Ogni volta che la professoressa parla di terrorismo, gli occhi della classe si voltano verso di lei. Non dice nulla. Stringe i pugni sotto il banco. Non è sola: centinaia di migliaia di studenti musulmani in Europa vivono la scuola non come un luogo di crescita, ma come uno spazio dove combattere ogni giorno per la propria dignità. Dove l’islamofobia, sottile o dichiarata, si manifesta in sguardi, silenzi, battute, esclusioni. Dove il razzismo indossa la cravatta dell’educazione.

L’islamofobia parte dai banchi

Parlare di islamofobia a scuola significa andare al cuore di una delle contraddizioni più profonde delle nostre società: da un lato, la scuola si presenta come spazio neutrale e inclusivo; dall’altro, riproduce le stesse logiche di esclusione e controllo che permeano la società. I bambini e le bambine musulmane imparano presto che il proprio nome, la propria lingua, i propri vestiti, la propria religione sono “problemi” da spiegare, giustificare, a volte nascondere.

Le discriminazioni possono essere dirette: un’insegnante che rifiuta l’uso del velo in classe, un compagno che li insulta chiamandoli “terroristi”, un preside che nega una sala per la preghiera durante il Ramadan. Oppure indirette, sistemiche: libri di testo che parlano dell’Islam solo in relazione a guerre e crociate, verifiche programmate durante il digiuno, ignoranza diffusa sul significato dei rituali.

La neutralità che esclude

Uno dei problemi più gravi è il mito della “neutralità laica”. In molti sistemi scolastici europei — in particolare in Francia, ma anche in Belgio e Germania — si pretende che la scuola sia “neutrale”, intesa come priva di simboli religiosi. Ma questa neutralità è tutt’altro che neutra: finisce per colpire solo alcune identità, e in particolare le ragazze musulmane che indossano l’hijab.

Il caso francese è emblematico. Dal 2004, una legge vieta l’uso di simboli religiosi evidenti nelle scuole pubbliche, come croci grandi, kippah e soprattutto il velo islamico. In pratica, però, è quest’ultimo ad essere sistematicamente preso di mira. Decine di studentesse vengono sospese, mandate a casa, invitate a “togliere il velo per il loro bene”. Non importa se sono brillanti, rispettose, curiose: la loro sola presenza con un simbolo religioso visibile viene vista come una minaccia.

Ma come abbiamo già raccontato nell’articolo “Donne musulmane e discriminazione: una lotta quotidiana tra razzismo e sessismo”, l’hijab non è un segno di sottomissione, ma per molte donne una scelta identitaria e spirituale. Vietarlo significa negare loro non solo un diritto, ma una parte fondamentale della loro esistenza.

I nomi che pesano

Molti studenti musulmani raccontano di come i loro nomi vengano storpiati, derisi, ignorati. Alcuni insegnanti fanno finta di dimenticarli, altri chiedono di usare un diminutivo “più semplice”. Ma il nome è il primo elemento dell’identità. Ridurlo, modificarlo, evitarlo significa comunicare fin da piccoli che non si è desiderati, che per essere accettati bisogna essere “altro da sé”.

Un ragazzo di Milano racconta: “Mi chiamo Yassine, ma la prof mi ha sempre chiamato ‘Simone’. All’inizio pensavo fosse un errore. Poi ho capito che non lo faceva con gli altri. Solo con me.”

I testi scolastici: l’Islam come minaccia

Un’altra forma di islamofobia invisibile ma potente è nei materiali didattici. Molti libri di storia e geografia parlano del mondo islamico solo in relazione al fondamentalismo, alla guerra, alla migrazione. L’Islam viene descritto come “diverso”, “arretrato”, “difficile da integrare”. Nulla su filosofia, arte, scienza, cultura. Nulla sull’Islam come parte dell’identità europea.

Questa rappresentazione distorta costruisce nel tempo una visione unilaterale nei compagni non musulmani, e un senso di inadeguatezza in quelli musulmani. Lo stesso meccanismo descritto nell’articolo Islamofobia in Europa: il razzismo nascosto sotto il velo della sicurezza, dove l’Islam è trattato come “problema pubblico” più che come realtà complessa e viva.

Pregiudizi istituzionali: le scelte scolastiche guidate dal razzismo

In molti paesi, le scuole — soprattutto quelle secondarie — orientano gli studenti verso percorsi formativi in base alla percezione della loro “integrabilità”. Un numero sproporzionato di ragazzi musulmani viene spinto verso scuole tecniche, professionali o percorsi di bassa qualifica, indipendentemente dal rendimento reale. Spesso, senza che i genitori ne siano informati pienamente o con strumenti per opporsi.

La sociologa belga Marie Arena lo definisce “orientamento selettivo travestito da consiglio pedagogico”. In realtà, è un meccanismo sistemico che mantiene la marginalizzazione sociale attraverso scelte scolastiche condizionate dal pregiudizio.

Il corpo musulmano come corpo da sorvegliare

Molte studentesse raccontano di sentirsi osservate, controllate, giudicate per come si vestono, per i loro gesti, per come pregano. Alcuni insegnanti entrano in conflitto aperto con loro, altri mantengono un atteggiamento passivo-aggressivo. Il messaggio è lo stesso: il loro corpo non appartiene pienamente allo spazio pubblico scolastico. È tollerato, ma mai pienamente legittimato.

Durante il Ramadan, ad esempio, alcuni insegnanti forzano gli studenti musulmani a mangiare in classe “per la loro salute”. Altri vietano momenti di preghiera perché “disturbano”. E in molte scuole, le ragazze con il velo vengono invitate a “non mostrarlo troppo” durante eventi scolastici, gite, foto ufficiali.

Strategie di resistenza: tra silenzio e azione

Nonostante questo clima, molti giovani musulmani resistono. Alcuni scelgono il silenzio come forma di sopravvivenza. Altri si organizzano in collettivi scolastici, parlano con i docenti, portano avanti piccoli atti di affermazione: rispondere a un insulto con fierezza, spiegare il proprio nome con orgoglio, correggere un libro in classe.

Ci sono scuole che iniziano a cambiare, grazie all’impegno di insegnanti alleati, formati, consapevoli. Alcune offrono sportelli di ascolto, materiali alternativi, progetti di educazione interculturale. Ma sono ancora eccezioni. La regola, purtroppo, resta la marginalità sistemica.

La necessità di una scuola realmente antirazzista

Per costruire una scuola antirazzista non bastano corsi occasionali o giornate della memoria. Serve una trasformazione profonda: nella formazione degli insegnanti, nei curricula, nei regolamenti scolastici, nel modo di intendere l’educazione.

Bisogna partire dall’ascolto delle studentesse e degli studenti musulmani. Loro conoscono meglio di chiunque altro cosa significhi crescere in un ambiente ostile, e hanno le risposte più autentiche. Serve poi un impegno politico per modificare leggi e normative che oggi mascherano la discriminazione dietro la parola “neutralità”.

Conclusione: educare alla dignità

La scuola è il primo luogo dove impariamo a convivere, a riconoscere l’altro, a pensare criticamente. Ma può anche essere il primo luogo dove impariamo ad avere paura, a escludere, a odiare. Sta a noi scegliere che tipo di scuola vogliamo costruire.

Riconoscere l’islamofobia a scuola è il primo passo. Il secondo è combatterla. Il terzo è trasformarla. Solo così potremo parlare di vera educazione.

Articoli correlati

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

social a.r.

1,264FansMi piace
4,280FollowerSegui
- Advertisement -

libri e letteratura