Islamofobia in Europa: il razzismo nascosto sotto il velo della sicurezza
In una stazione ferroviaria di Bruxelles, una donna con il velo viene fermata per un controllo casuale. A Parigi, un giovane con la barba viene seguito dalla polizia in metropolitana. In un quartiere di periferia a Berlino, un uomo musulmano viene insultato mentre porta i suoi figli a scuola. Scene quotidiane, spesso ignorate, normalizzate, dimenticate. Ma in realtà, ogni giorno, migliaia di persone musulmane in Europa vivono sulla propria pelle il peso invisibile di una forma di razzismo che si nasconde dietro parole come “sicurezza”, “neutralità” e “lotta al terrorismo”: l’islamofobia.
Sicurezza selettiva: il volto istituzionale dell’islamofobia
La narrativa della sicurezza è diventata negli ultimi decenni una delle principali giustificazioni per misure discriminatorie contro le comunità musulmane. Il punto di svolta simbolico e pratico è stato l’11 settembre 2001. Da quel momento, nel discorso pubblico e nelle politiche europee, essere musulmano ha iniziato a coincidere pericolosamente con l’essere un potenziale sospetto.
Paesi come la Francia, il Belgio e l’Olanda hanno introdotto normative mirate che, pur non citando esplicitamente l’Islam, colpiscono in modo sproporzionato proprio chi lo professa. Dal divieto del velo integrale nei luoghi pubblici, alla sorveglianza massiva nei quartieri “a rischio radicalizzazione”, fino alle leggi contro la “separatismo religioso”, si è costruito un intero sistema di contenimento sociale e culturale.
Questo securitarismo selettivo agisce con la forza della legge ma parla il linguaggio del pregiudizio. Dietro la facciata della prevenzione, si cela una profonda diffidenza verso tutto ciò che è percepito come “musulmano”, “non occidentale”, “non integrato”.
Il peso del sospetto: quando l’identità diventa un problema
Per le persone musulmane in Europa, l’identità religiosa diventa automaticamente un elemento che attira controlli, ostilità, discriminazione. Una donna che indossa l’hijab è spesso vista come sottomessa o potenzialmente radicalizzata; un uomo con barba e kufi può essere trattato con sospetto in aeroporto o addirittura segnalato dai vicini.
Il problema è sistemico: nei controlli di polizia, nei colloqui di lavoro, nei media, nell’istruzione, ovunque si annidano micro e macro-discriminazioni. Studi condotti da università in Germania, Paesi Bassi e Regno Unito dimostrano che candidati con nomi arabi o musulmani ricevono meno inviti a colloqui rispetto a coetanei con nomi “autoctoni”, a parità di curriculum.
Allo stesso modo, un rapporto dell’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali (FRA) del 2021 denuncia che le persone musulmane sono soggette a un tasso più alto di controlli identitari senza causa apparente, in particolare uomini giovani. La giustificazione è sempre la stessa: sicurezza. Ma quando la sicurezza diventa selettiva, smette di essere giustizia e diventa discriminazione istituzionalizzata.
Francia: il laboratorio della laicità punitiva
La Francia rappresenta forse il caso più eclatante di islamofobia istituzionalizzata in Europa. Con la sua idea di laïcité come strumento di neutralizzazione dello spazio pubblico, ha implementato una lunga serie di provvedimenti che colpiscono in maniera diretta o indiretta le pratiche religiose musulmane.
Il divieto del velo nelle scuole pubbliche (2004), del niqab nei luoghi pubblici (2010), e le più recenti restrizioni su abaya e simboli religiosi hanno contribuito a creare un clima di sospetto generalizzato. Le donne musulmane, in particolare, si trovano di fronte a un paradosso crudele: se indossano il velo vengono stigmatizzate come oppresse; se lo tolgono per adattarsi, perdono un pezzo della loro identità.
Dietro questi divieti si cela una concezione di “emancipazione” imposta, che considera l’Islam incompatibile con i valori repubblicani. Un’idea profondamente colonialista, che non lascia spazio a una reale autodeterminazione.
La Germania e la paura dell’Islam “politico”
In Germania, l’islamofobia assume toni più sottili ma altrettanto insidiosi. Gli attacchi dell’estrema destra, come quello di Hanau nel 2020, hanno messo in luce una violenza islamofoba crescente e sottovalutata. Ma anche le politiche ufficiali contribuiscono a rafforzare l’idea che la presenza musulmana sia un problema da gestire, contenere, monitorare.
Nel 2023 è stato istituito un “Registro dell’Islam politico” a livello federale, con l’obiettivo di monitorare associazioni musulmane accusate (spesso senza prove) di voler minare i valori democratici. Questo approccio alimenta una cultura del sospetto che colpisce non solo chi pratica attivamente la religione, ma anche chi semplicemente si identifica come musulmano.
La complicità dei media e dei social
Il ruolo dei media nel rafforzare l’islamofobia è cruciale. I notiziari tendono a sottolineare l’origine o la religione musulmana degli autori di reati, mentre ignorano quella dei non-musulmani. I talk show danno spazio a ospiti che parlano dell’Islam come problema, raramente come parte integrante dell’identità europea.
Sui social media, poi, l’islamofobia corre veloce. Hashtag, meme, post virali che mettono in ridicolo pratiche religiose, che evocano “l’invasione islamica” o che accusano i musulmani di “non voler integrarsi” sono all’ordine del giorno. Queste narrazioni tossiche costruiscono una percezione pubblica distorta, in cui l’Islam non è una religione, ma una minaccia.
Le conseguenze sulle vite quotidiane
L’islamofobia in Europa non è solo ideologica: ha effetti concreti, dolorosi, tangibili. Donne che rinunciano a studiare perché vessate a scuola. Uomini che evitano di pregare in pubblico per timore di ritorsioni. Bambini che interiorizzano vergogna per il proprio nome o la propria lingua.
C’è un’intera generazione di giovani musulmani europei che cresce con la sensazione di non essere mai abbastanza “europei”, di dover costantemente giustificare la propria presenza, di vivere sotto esame.
E poi ci sono i traumi: gli attacchi a moschee, le aggressioni verbali, gli sputi, le violenze fisiche. Ogni episodio lascia una cicatrice. Ogni silenzio complice alimenta il senso di solitudine.
Resistenze quotidiane e reti di solidarietà
Eppure, contro questa macchina di esclusione, esistono anche storie di resistenza. Associazioni, collettivi, attivisti musulmani e non musulmani lavorano ogni giorno per contrastare l’islamofobia e costruire spazi alternativi.
Progetti educativi nelle scuole, podcast indipendenti che raccontano esperienze musulmane autentiche, festival culturali, moschee aperte alla cittadinanza, denunce pubbliche: sono questi gli strumenti della contro-narrazione.
Le reti di solidarietà tra minoranze, tra femminismi intersezionali, tra realtà laiche e religiose, stanno generando nuove forme di coesione e consapevolezza.
Il silenzio europeo: complicità o paura?
L’Unione Europea ha tardato ad affrontare il problema. Solo nel 2022 è stato finalmente nominato un Coordinatore europeo per la lotta all’islamofobia. Ma le misure concrete restano deboli, e soprattutto manca una reale volontà politica di contrastare le leggi e pratiche islamofobe nei singoli Stati.
Nel nome della “libertà di espressione” si lascia passare ogni attacco all’Islam come legittima critica. Ma non c’è libertà quando serve a ferire, non c’è critica quando diventa odio, non c’è neutralità quando copre una discriminazione sistemica.
Conclusioni: smascherare la falsa neutralità
Parlare di islamofobia in Europa oggi significa rompere un tabù. Significa denunciare non solo gli atti espliciti di odio, ma anche e soprattutto le forme più sottili, sistemiche, “legalizzate” di discriminazione.
Significa smascherare il razzismo che si veste da sicurezza, che si traveste da laicità, che si nasconde dietro la retorica dell’integrazione. E significa anche ascoltare, amplificare, sostenere le voci musulmane che chiedono rispetto, uguaglianza, dignità.
L’Europa non può dirsi democratica se accetta che milioni di suoi cittadini vivano da sospettati solo per la loro fede. Contrastare l’islamofobia è oggi una battaglia di civiltà. E dobbiamo sceglierla.