Il razzismo in Italia passa anche dai media: parole, immagini e silenzi che fanno danni
Accade ogni giorno, a ogni ora, in ogni telegiornale, talk show o home page online: il modo in cui i media italiani raccontano la realtà contribuisce a costruire, rafforzare e legittimare il razzismo. Non serve un insulto esplicito, né un articolo d’odio per alimentare la discriminazione: basta la selezione delle parole, il taglio delle immagini, le omissioni ricorrenti, la scelta degli ospiti. È così che il razzismo in Italia prende forma anche dietro una scrivania redazionale.
In questo Paese, l’informazione non è neutra. I giornali e le TV hanno il potere di decidere cosa è “normale”, cosa è “problema”, chi è “pericoloso”. E da decenni, questo potere è esercitato in modo sistemico contro determinate categorie: i migranti, i rom, i musulmani, le persone nere, i poveri.
Quando la nazionalità fa notizia (ma solo se non è italiana)
Una delle pratiche più evidenti — e più tossiche — è la scelta selettiva della nazionalità nei titoli di cronaca. Se un uomo straniero commette un reato, la sua nazionalità finisce quasi sempre nel titolo: “Rissa tra stranieri in stazione”, “Nigeriano accoltella passante”, “Marocchino arrestato per furto”. Se il colpevole è italiano, invece, il titolo si concentra sul fatto: “Ragazza uccisa dal fidanzato”, “Uomo violento arrestato”. La nazionalità sparisce.
Questa pratica non è neutra. È una scelta editoriale che costruisce un’associazione automatica: straniero = pericoloso. Una narrativa che, ripetuta migliaia di volte, entra nel subconscio collettivo.
E se il colpevole è nero, la pelle diventa una notizia. Se è bianco, no. Se è musulmano, il velo finisce in primo piano. Se è cristiano, non interessa.
I titoli: il sensazionalismo al servizio del pregiudizio
Il razzismo mediatico inizia dai titoli. Spesso sono brevi, aggressivi, deformanti. Alcuni esempi reali:
- “Invasione di migranti, l’Italia è sola”
- “Rom rubano al supermercato: paura tra i clienti”
- “Profugo molesta donna al parco”
- “Festa islamica blocca il traffico”
Questi titoli non raccontano i fatti: li interpretano. E lo fanno sempre nella stessa direzione. Usano parole come “invasione”, “paura”, “allarme”, “emergenza”, “problema”. E scelgono di raccontare solo alcune storie, solo alcune voci.
Il risultato? Un clima di sospetto, paura e odio. Che non nasce dal nulla: viene costruito.
I talk show: il teatro del falso equilibrio
Nel panorama televisivo italiano, i talk show sono tra i principali colpevoli di razzismo normalizzato. Invitano sistematicamente esponenti di estrema destra o opinionisti noti per frasi discriminatorie, e li affiancano a persone nere, migranti o attivisti antirazzisti, come se si trattasse di due opinioni legittime da “bilanciare”.
Questo meccanismo, spacciato per pluralismo, in realtà legittima l’odio. Perché mette sullo stesso piano la difesa dei diritti umani e la propaganda xenofoba. Perché fa passare l’idea che dire “i rom sono un problema” sia solo un punto di vista. E così, l’odio diventa normale. Le parole discriminatorie passano in prima serata. I telespettatori si abituano.
E chi parla di inclusione viene zittito, ridicolizzato, isolato. Perché la tv italiana ama lo scontro, non la verità.
Le immagini che parlano più delle parole
Anche le immagini scelte dai media raccontano molto. Quando si parla di migranti, le foto sono sempre le stesse: barconi, volti stanchi, sguardi spenti. Mai una persona che lavora, studia, ama, vive. I rom vengono mostrati nei campi, con bambini sporchi, roulotte rotte, fuochi accesi. Mai una donna rom che lavora in ospedale, un ragazzo rom che si laurea.
Le persone nere vengono mostrate solo in due contesti: cronaca nera o sport. Gli arabi solo se c’è terrorismo o Ramadan. Mai nella loro quotidianità, mai come parte della società italiana.
Questa selezione non è innocente. Costruisce immaginari. Alimenta stereotipi. Rinforza l’idea che esista un “noi” (bianco, italiano, cattolico) e un “loro” (estranei, pericolosi, problematici).
Queste dinamiche mediatiche si intrecciano direttamente con le logiche istituzionali, come approfondito nell’articolo Razzismo in Italia: leggi, istituzioni e silenzi sistemici, che analizza come il potere statale contribuisca alla discriminazione normalizzata.
Il linguaggio della disumanizzazione
Uno degli effetti più pericolosi del razzismo mediatico è la disumanizzazione. I migranti diventano “clandestini”, “carico umano”, “emergenza”, “flusso”. I rom diventano “nomadi”, anche quando vivono in Italia da generazioni. I musulmani sono ridotti a “velate”, “integralisti”, “imam radicali”.
Anche il modo in cui si parla della morte è significativo. Quando muore una persona migrante, il titolo parla di “naufragio”, non di strage. Quando muore un italiano, si racconta la sua storia, la sua famiglia, il suo volto. Ai migranti si nega persino l’individualità nella morte.
Disumanizzare è il primo passo per giustificare l’ingiustizia. Se non vedi l’altro come persona, puoi accettare che venga lasciato in mare. Che viva in un campo. Che venga picchiato. Che venga ignorato.
Il ruolo delle agenzie di stampa e dei media mainstream
Spesso si dà la colpa “ai social”, ma in realtà il problema parte dai media ufficiali. Le agenzie di stampa, come ANSA o AGI, battono titoli già sbilanciati. I giornali li copiano. I siti online li peggiorano per avere clic. I social amplificano il tutto.
E così, una notizia marginale diventa emergenza nazionale. Una rissa diventa un attacco. Una protesta pacifica diventa una minaccia.
I media non sono specchi neutri della realtà. Sono macchine che costruiscono narrazione. E la narrazione che scelgono è quasi sempre razzista.
Chi parla, chi non parla: il razzismo delle fonti
Un altro aspetto cruciale è chi ha voce nei media italiani. I migranti parlano raramente. Le persone nere quasi mai. I rom sono raccontati, ma non parlano. I musulmani vengono descritti, ma non intervistati.
Chi decide come raccontare la realtà sono quasi sempre giornalisti bianchi, opinionisti bianchi, politici bianchi. E questo crea una frattura profonda: la realtà viene raccontata da chi non la vive. Le parole sono sempre quelle di chi guarda, non di chi subisce.
Serve invece un giornalismo partecipato, pluralista, responsabile. Che dia spazio, tempo, dignità alle voci spesso ignorate.
Le eccezioni che confermano il problema
Esistono ovviamente giornalisti e redazioni che lavorano con coscienza, che raccontano la verità, che combattono il razzismo anche nei media. Ma sono eccezioni. Isolate. Spesso boicottate. Non a caso, molte delle inchieste migliori sul razzismo vengono pubblicate da piccoli media indipendenti, blog, associazioni, non dai grandi gruppi editoriali.
E quando un giornalista osa raccontare la verità, viene accusato di “buonismo”, di “faziosità”, di “ideologia”. In Italia, dire che il razzismo esiste è già una presa di posizione.
Costruire un’informazione antirazzista
Non basta smettere di usare parole offensive. Serve un cambio di paradigma. Un’informazione davvero antirazzista deve:
- Riconoscere il proprio privilegio
- Dare voce a chi è sistematicamente escluso
- Contestualizzare i fatti
- Smettere di criminalizzare intere categorie
- Rifiutare il falso equilibrio
- Educare, non solo informare
Serve una rivoluzione culturale nelle redazioni, nelle scuole di giornalismo, nelle agenzie di stampa. Serve responsabilità. Serve coraggio.
Perché il razzismo in Italia non è solo nelle strade. È anche nei titoli. Nei sottopancia. Nei silenzi. Nei montaggi. Nelle inquadrature.
E finché i media continueranno a essere complici, sarà difficile cambiare davvero.