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domenica, 22 Giugno,2025

Razzismo in divisa: profiling, abusi e paura nelle strade italiane

Il razzismo in Italia si veste anche da uniforme

In Italia c’è una forma di razzismo che non ha bisogno di slogan, di svastiche, di insulti gridati. Non ha nemmeno bisogno di essere riconosciuto, perché agisce in silenzio, protetto dalla divisa, dalle istituzioni, dal sistema. È il razzismo delle forze dell’ordine. Quello che controlla sempre gli stessi. Che perquisisce sempre gli stessi. Che interroga, minaccia, colpisce — ma solo chi ha la pelle scura, un nome straniero, un accento sbagliato.

Si chiama profiling razziale. È illegale. Ma è pratica quotidiana in molte città italiane. E chi lo subisce, ogni giorno, vive con una paura muta: quella di essere fermato per quello che è, non per quello che fa.

Profiling razziale: come funziona davvero

Il profiling razziale è un meccanismo apparentemente semplice: la polizia decide chi fermare in base a caratteristiche razziali, etniche o culturali, non per comportamenti sospetti. In Italia, questo significa che se sei nero, arabo, rom, o semplicemente “non bianco”, è molto più probabile che tu venga fermato per un controllo, anche senza alcuna motivazione.

Accade nei treni regionali, nelle metropolitane, nei parchi, ai mercati, nei pressi delle stazioni. A volte con un semplice “documenti, per favore”. Altre volte con un perquisizione. Altre ancora con umiliazioni, insulti, minacce.

Chi è bianco, chi è italiano “vero”, difficilmente viene toccato. Questo è il razzismo istituzionale in uniforme.

Storie reali: mi fermano ogni settimana, solo perché sono nero

Mohamed, 24 anni, studente universitario, vive a Torino. Nato a Milano. Documenti in regola. Italiano perfetto.
Mi fermano almeno una volta a settimana. Alla metro, in stazione, vicino a casa. Sempre le stesse domande. Dove vai? Dove vivi? Hai documenti? Mai una spiegazione. Mai un perché. Non succede ai miei amici bianchi. Loro passano. Io no.

Nadia, 29 anni, lavora in una cooperativa a Bologna. Porta il velo.
Mi hanno chiesto di aprire la borsa in strada. Mi hanno chiesto se nascondevo qualcosa sotto il velo. Un agente mi ha detto: lo fai per provocare, eh? Nessuno si è scusato.

Prince, 31 anni, lavora come rider a Napoli.
Una volta mi hanno fermato e buttato a terra. Solo perché ero in bici con lo zaino, e secondo loro correvo troppo. Mi hanno messo le mani in tasca, preso il cellulare, letto i messaggi. Non hanno trovato niente. Nessuna scusa, nessuna multa. Solo silenzio.

Queste non sono eccezioni. Sono esperienze quotidiane. In ogni città italiana.

Quando la divisa diventa impunità

Uno degli aspetti più inquietanti del razzismo nelle forze dell’ordine italiane è l’impunità. Le denunce per abusi, violenze o discriminazioni razziali da parte della polizia vengono quasi sempre archiviate. I video spariscono, le versioni ufficiali vengono credute a priori, le testimonianze delle vittime considerate “non attendibili”.

Il caso di Abba (Abdul Salam Guibre), ucciso nel 2008 a Milano da due italiani dopo essere stato inseguito e colpito a bastonate, è diventato un simbolo. Ma quanti altri casi non fanno notizia? Quanti pestaggi nelle celle, nei furgoni, nei CPR restano senza nome? Quante aggressioni verbali vengono archiviate come “reati minori”?

Il razzismo istituzionale protegge se stesso. E quando a esercitarlo è una figura in divisa, diventa quasi impossibile da contestare.

Controlli a senso unico, risultati zero

Diversi studi dimostrano che i controlli basati sul profiling razziale non portano a risultati migliori in termini di sicurezza. Al contrario: alimentano sfiducia, rabbia, esclusione. Rendono meno collaborativi i cittadini, più difficile il lavoro delle stesse forze dell’ordine, più fragile la coesione sociale.

Ma allora perché continuano?

Perché è più facile fermare un ragazzo nero in piazza che fare un’indagine complessa. Perché la repressione visibile dà l’illusione di controllo. Perché certi politici vogliono “fare pulizia”, e le forze dell’ordine — con salari bassi, poca formazione e zero anticorpi culturali — eseguono.

E così, il razzismo diventa pratica operativa. Quotidiana. Accettata.

Il ruolo dei media: giustificare, minimizzare, silenziare

I media italiani, come già analizzato in questo articolo, contribuiscono a nascondere il problema. Quando una persona viene aggredita dalla polizia, si parla subito di “resistenza a pubblico ufficiale”. Quando un ragazzo nero muore durante un fermo, si sottolineano i suoi “precedenti”. Quando una donna rom viene maltrattata, si insinua che “forse aveva provocato”.

Si costruisce così un racconto in cui la divisa ha sempre ragione e la vittima, se è straniera o povera, diventa automaticamente sospetta.

Questa narrazione uccide due volte: una nei fatti, l’altra nella memoria.

Il silenzio delle istituzioni

Le istituzioni italiane — governo, ministeri, prefetture — non riconoscono ufficialmente l’esistenza del razzismo nelle forze dell’ordine. Non ci sono statistiche ufficiali, non esiste un protocollo antidiscriminazione interno, nessun organismo di controllo indipendente ha potere reale.

Al contrario, chi denuncia viene spesso delegittimato. Le associazioni antirazziste accusate di “faziosità”. Le vittime ridicolizzate. Gli attivisti messi sotto sorveglianza.

Eppure, il problema è strutturale. Non è questione di “mele marce”. È la cultura interna che va cambiata: una cultura gerarchica, maschilista, autoritaria, bianca.

CPR e razzismo legalizzato

Un capitolo a parte merita il sistema dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR). Veri e propri lager di Stato, dove persone migranti — spesso con documenti scaduti o rifiuti amministrativi — vengono rinchiuse senza processo. Le condizioni sono disumane. Le violenze quotidiane. Gli abusi documentati. E le forze dell’ordine all’interno agiscono con totale impunità.

Molti dei casi di morte, pestaggi o suicidi nei CPR non arrivano nemmeno in tribunale. Perché? Perché le vittime non hanno avvocati. Non hanno diritti. E soprattutto: non hanno voce.

I CPR sono la prova più chiara che in Italia il razzismo istituzionale ha forma, luogo e volto. E indossa l’uniforme.

Una paura quotidiana: essere fermato per quello che sei

Per chi vive in Italia ed è nero, arabo, rom, o visibilmente “non bianco”, il rapporto con le forze dell’ordine è spesso segnato da paura. Non una paura generica del crimine, ma una paura specifica della divisa. Una paura di essere fermato. Umiliato. Schedato. Denigrato.

E questa paura non è paranoia. È esperienza.

Molti giovani evitano certe strade. Cambiano metro se vedono polizia. Non denunciano i soprusi per paura di ritorsioni. Questa è la frattura democratica più grave: quando una parte della popolazione non si sente protetta, ma sorvegliata.

Cosa fare: riforma e denuncia

Per fermare il razzismo nelle forze dell’ordine servono riforme profonde:

  • Formazione obbligatoria su antirazzismo e diritti umani
  • Istituzione di un organo indipendente che indaghi sugli abusi
  • Raccolta trasparente dei dati sui controlli e sulle denunce
  • Inclusione di personale non bianco
  • Protezione per chi denuncia dall’interno
  • Sospensione automatica in caso di denuncia grave

Ma soprattutto, serve un cambiamento culturale: smettere di pensare che criticare la polizia sia “odio verso lo Stato”. Al contrario: è amore per una democrazia vera, dove la legge è uguale per tutti, davvero.

Conclusione: la divisa non deve giustificare il razzismo

Indossare una divisa significa avere potere. Ma anche responsabilità. E in Italia, troppo spesso, questo potere viene usato contro chi è già marginalizzato. Non per proteggerlo. Ma per sorvegliarlo. Umiliarlo. Spegnerlo.

Il razzismo in Italia indossa la divisa. E finché lo accetteremo, continuerà a vivere nelle nostre città, nei nostri uffici, nei nostri silenzi.

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