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domenica, 22 Giugno,2025

Le periferie dimenticate: razzismo quotidiano nel cuore d’Italia

Le periferie dimenticate: razzismo quotidiano nel cuore d’Italia

C’è un’Italia che non compare nelle cartoline, nei titoli dei TG o nei discorsi istituzionali. È l’Italia delle periferie: quartieri tagliati fuori dai centri urbani, lasciati ai margini, dove il razzismo non è una teoria ma una realtà quotidiana. Non servono svastiche sui muri o insulti gridati in strada. Basta guardare chi viene fermato ogni giorno dalla polizia, chi non riceve risposte dagli uffici, chi resta indietro a scuola, chi cerca casa e si sente dire “non affittiamo a stranieri”. Basta osservare con attenzione per capire che il razzismo in Italia ha un cuore urbano, concreto, persistente. E ha un indirizzo preciso: le periferie.

Dove vivono i “non integrabili”

La geografia delle città italiane disegna con precisione il confine tra chi può permettersi l’inclusione e chi no. Milano, Roma, Torino, Napoli, Bologna. Ogni città ha i suoi quartieri dove la povertà si concentra, dove i servizi crollano, dove il trasporto pubblico è lento, dove i centri per l’impiego sono deserti, dove le scuole cadono a pezzi. Ed è proprio lì che si concentrano le famiglie migranti, le comunità rom, le persone nere, arabe, asiatiche.

Non è una scelta: è l’unica opzione. Il mercato immobiliare discrimina apertamente. I proprietari chiedono “solo italiani”, i mediatori immobiliari sorridono e poi spariscono. Gli affitti diventano inaccessibili per chi ha un contratto precario o un permesso di soggiorno corto. E così, chi è considerato “non integrabile” viene respinto in zone dimenticate.

Ma non si tratta solo di povertà. Il quartiere diventa una gabbia, un’etichetta. Se vieni da là, sei automaticamente sospetto. Non importa chi sei, cosa fai, come vivi. Conta solo il tuo indirizzo.

Controlli a senso unico

Chi abita in periferia lo sa: il controllo delle forze dell’ordine è parte della routine. Ma non è uguale per tutti. Le pattuglie non fermano gli studenti bianchi in bici. Non chiedono i documenti ai padri di famiglia italiani. Non entrano nei bar “normali”. Cercano altro. Cercano chi ha la pelle scura. Chi ha il volto “da straniero”. Chi parla con accento.

I controlli sono più frequenti, più aggressivi, più invasivi. E quando qualcosa va storto, quando un ragazzo risponde male o scappa per paura, i titoli dei giornali parlano di “resistenza”, di “violenza”, di “emergenza sicurezza”. Ma la violenza vera è quella che inizia prima: nel pregiudizio istituzionalizzato.

Scuola: ghetti educativi nascosti

Le scuole di periferia raccolgono spesso una maggioranza di alunni figli di migranti. Non perché siano tanti, ma perché gli italiani se ne sono andati. Perché i genitori bianchi preferiscono iscrivere i figli altrove. Così nascono le “scuole ghetto”, anche se nessuno usa queste parole.

Gli insegnanti sono meno motivati, spesso precari. I laboratori non ci sono. Le uscite didattiche si fanno meno. I progetti extracurricolari scarseggiano. Ma soprattutto, lo sguardo verso questi bambini è diverso. Li si considera meno brillanti, meno capaci, meno promettenti. E così crescono con un messaggio implicito: vale meno il tuo sapere, vale meno la tua voce.

La dispersione scolastica nelle periferie è altissima. Ma nessuno si chiede perché. Nessuno si chiede se anche questo sia razzismo.

Servizi negati, attese infinite

Nelle periferie, l’accesso ai servizi pubblici è un’odissea. Per ottenere un documento serve viaggiare fino al centro. Per un consultorio, ci vogliono settimane. I centri d’ascolto sono pieni, i servizi sociali sottofinanziati. E per chi ha bisogno di un alloggio popolare o di un sussidio, i tempi si dilatano. Le risposte arrivano solo a chi sa insistere, a chi parla bene l’italiano, a chi ha il tempo e il coraggio di affrontare gli uffici. Una dinamica che si ripete anche nei meccanismi burocratici e istituzionali centrali, come descritto nell’articolo Razzismo istituzionale in Italia: leggi, silenzi e normalizzazione.

Per molti migranti, rom, richiedenti asilo o persone povere, la burocrazia è una barriera. E spesso è proprio lì che avviene la discriminazione: quando il modulo viene respinto senza motivo, quando la pratica sparisce, quando il funzionario ti guarda e dice “non sei prioritario”.

Supermercati, bus, bar: il razzismo ordinario

Non serve un commissariato per sentire il razzismo. Basta salire su un autobus in periferia. Gli sguardi si posano solo su alcuni. I sospetti sono mirati. Gli insulti – mai detti ad alta voce – si leggono sulle facce. Nei supermercati, i controlli ai sacchetti sono selettivi. I vigilanti ti seguono solo se hai la pelle sbagliata. Nei bar, il servizio è più lento. O non arriva affatto.

Eppure, tutto questo passa sotto silenzio. Perché è quotidiano. Perché fa parte della “normalità” periferica. Ma è razzismo. Interiorizzato, diffuso, pervasivo. E sistemico.

Gentrificazione e sgomberi: pulizia urbana travestita da sviluppo

In molte città italiane, le periferie stanno cambiando. Palazzi che crollavano vengono ristrutturati. Negozi chic aprono dove prima c’erano centri sociali. Ma questo non significa inclusione: significa esclusione. I poveri vengono cacciati. I migranti vengono sgomberati. Le famiglie rom spariscono, trasferite altrove, più lontano ancora. I quartieri diventano “più belli” ma meno giusti.

La gentrificazione è una forma elegante di razzismo urbano. Toglie spazio a chi non rientra nel nuovo modello. Trasforma le strade in vetrine, cancella la memoria, uniforma le voci. E chi resta diventa estraneo in casa propria.

Le politiche pubbliche che alimentano la discriminazione

Non è solo una questione sociale. È una questione politica. Le scelte istituzionali – tagli ai fondi per la casa, mancanza di asili nido, assenza di mediazione culturale – colpiscono proprio le periferie. Le rendono fragili, isolate, abbandonate. E in questo abbandono si alimenta la rabbia, la sfiducia, il rancore.

Poi arriva la criminalizzazione. Quando i media raccontano solo le notizie nere. Quando i politici parlano di “degrado” e non di diritti. Quando le forze dell’ordine sono l’unica presenza dello Stato. Così il razzismo istituzionale si salda con quello urbano. E diventa una prigione a cielo aperto.

Testimonianze: vivere in periferia da nero, musulmano, rom

“Ho chiamato cento annunci per una stanza, appena sentono il mio nome mi dicono che è già affittata.” – Abdou, 26 anni, vive a Torino
“Mia figlia è l’unica nera nella sua classe. L’insegnante mi ha detto che ‘non può capire come gli altri’.” – Amina, Milano
“Sono nato a Roma, ma ogni volta che entro in un negozio mi chiedono da dove vengo davvero.” – Nicola, 19 anni
“Ci hanno sgomberato alle 6 di mattina. Messo fuori tutto. I bambini piangevano. Non ci hanno dato nemmeno il tempo di prendere i documenti.” – Famiglia rom, Bologna

Queste storie non sono eccezioni. Sono la regola. Solo che nessuno le racconta.

Cambiare paradigma: le periferie come centro della lotta antirazzista

Le periferie italiane non sono solo luoghi di esclusione. Sono anche territori di resistenza. Dove nascono collettivi, centri sociali, scuole popolari, orti urbani, radio indipendenti. Dove le comunità migranti si organizzano, si aiutano, si proteggono. Dove le donne rom si battono per i diritti dei loro figli. Dove i giovani afrodiscendenti alzano la voce e rivendicano spazio.

Questa è la vera Italia multiculturale. Non quella delle pubblicità o delle frasi di circostanza. Ma quella reale, conflittuale, viva.

Cambiare il racconto significa partire da qui. Riconoscere che il razzismo in Italia ha un volto urbano, concreto, politico. E che se vogliamo abbatterlo, dobbiamo iniziare proprio dalle periferie dimenticate.

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