Gaza: storia di una prigione a cielo aperto. Dalla Nakba al genocidio del silenzio
C’era una terra, una volta. Abitata, viva, attraversata da mercanti, contadini, famiglie. Una terra con nome e memoria: Palestina. E c’era un popolo, i palestinesi, che in quella terra avevano radici antiche quanto gli ulivi che ancora oggi crescono tra le rovine. Ma tutto questo, per la logica brutale della geopolitica e della colonizzazione, è stato dichiarato sacrificabile.
La Nakba: il progetto della cancellazione
Non fu un evento casuale, né una conseguenza inevitabile della Seconda Guerra Mondiale. La Nakba, che in arabo significa “catastrofe”, fu il risultato diretto di un progetto coloniale. Nel 1948, con la proclamazione unilaterale dello Stato di Israele, più di 700.000 palestinesi vennero espulsi con la forza. Interi villaggi furono rasi al suolo, archiviati come “non più esistenti” nelle mappe redatte dalla nuova amministrazione sionista. Il diritto al ritorno venne negato. Chi scappava diventava profugo a tempo indeterminato; chi restava era condannato a vivere come cittadino di serie B in un regime che avrebbe legalizzato la discriminazione per decenni.
Il mondo, reduce dagli orrori dell’Olocausto, tacque. Accettò la narrativa del “popolo senza terra per una terra senza popolo”, ignorando che quella terra aveva un popolo eccome. Un popolo che parlava arabo, che aveva scuole, ospedali, mercati, tradizioni, famiglie. Le memorie palestinesi vennero ridotte a folclore, la lingua vista come segno di alterità, la storia privata del suo diritto di esistere.
Quella cancellazione sistemica non fu mai veramente nascosta. Fu normalizzata. Il primo passo del razzismo più efficace: far sembrare legittima la cancellazione dell’altro. Non con parole d’odio, ma con parole d’ordine: “sicurezza”, “autodifesa”, “terra promessa”.
Gaza: il ghetto del XXI secolo
La Striscia di Gaza nacque come rifugio di emergenza. La sua configurazione attuale è il risultato di uno sradicamento. Centinaia di migliaia di persone, spinte dal fuoco e dal piombo fuori dai loro villaggi, si accalcarono in questa stretta lingua di terra. Gaza non era pensata per accogliere milioni di abitanti, non aveva le infrastrutture, né le risorse. Eppure divenne l’unico posto dove molti palestinesi poterono rifugiarsi.
Nel 1967 Israele occupò militarmente la Striscia. Ne controllò ogni aspetto: risorse idriche, flussi di merci, movimenti di persone. Ogni passaggio, ogni camion, ogni permesso d’uscita venne subordinato alla burocrazia militare israeliana. Gaza era già diventata una zona a parte, una marginalità geografica trasformata in laboratorio del controllo totale.
Nel 2005 Israele si ritirò fisicamente da Gaza, ma non cessò mai di controllarla. Nel 2007, dopo l’ascesa al potere di Hamas, il pretesto fu servito: Israele impose un blocco totale. Via terra, via mare, via aria. Nessuno entra, nessuno esce. Chi lo fa, rischia la vita. Il mare è sorvegliato da navi da guerra, i valichi chiusi, i cieli pattugliati da droni armati.
Oggi, Gaza è un esperimento estremo di controllo. Un luogo dove ogni diritto umano è stato sospeso. La disoccupazione giovanile supera l’80%, l’acqua potabile è quasi inesistente, l’energia elettrica disponibile solo per poche ore al giorno. Gli ospedali operano senza anestetici, le scuole senza banchi. I bambini crescono tra il rumore delle esplosioni e il terrore delle incursioni notturne. Ogni strada è un ricordo di morte.
I droni non sono solo armi: sono simboli. Sorvolano costantemente le teste della popolazione, registrano ogni movimento, ricordano a ogni singolo abitante che la loro vita è osservata, controllata, minacciata. L’infanzia è una parola vuota, perché in Gaza si nasce adulti. La vita stessa è precaria: ogni giorno può essere l’ultimo.
Gaza non è solo una vittima. Gaza è un messaggio. Un avvertimento. Una minaccia simbolica. Ecco cosa succede a chi resiste. Ecco cosa succede a chi rivendica il diritto di esistere.
Attacchi sistemici e silenzi occidentali
Ogni attacco a Gaza ha un nome, una data, un numero di vittime. Ma il mondo li dimentica in fretta, o peggio: li giustifica. “Risposta a un attacco di Hamas”, “azione di difesa”, “operazione mirata”. I lessici diplomatici anestetizzano la realtà. Ma dietro ogni parola neutra, ci sono corpi bruciati, bambini sepolti vivi, ospedali sventrati.
Nel maggio 2021, l’attacco a Gaza durò undici giorni. Più di 250 morti, la maggior parte civili. Interi palazzi residenziali distrutti. Le Nazioni Unite denunciarono potenziali crimini di guerra, ma nessuna conseguenza concreta. Nessuna sanzione. Nessuna condanna ufficiale.
Nel 2023, altri attacchi. E poi ancora nel 2024, e infine nel 2025, l’anno in cui Gaza è diventata il simbolo del genocidio silenzioso. L’anno in cui anche le scuole e le tende dei rifugiati sono diventate bersagli legittimi. L’anno in cui una bambina di undici anni, Yaqeen Hammad, è stata uccisa mentre filmava la sua quotidianità sotto assedio.
L’Occidente ha reagito con comunicati vaghi, dichiarazioni di preoccupazione, inviti alla moderazione. Ma nel frattempo, ha continuato a vendere armi, a sostenere politicamente e militarmente il governo israeliano, a bloccare risoluzioni ONU. L’Europa si è mostrata impotente o complice. Gli Stati Uniti, ostaggio della lobby filo-israeliana, hanno continuato a porre il veto su ogni iniziativa di condanna.
Il doppio standard è diventato evidente: un morto ucraino vale dieci pagine di giornale; un morto palestinese, forse un trafiletto. Non è solo questione di geopolitica. È una questione di razzismo sistemico. Di disumanizzazione mediatica. Di chi ha diritto al dolore e chi no.
Gaza brucia. Ma brucia nel silenzio. Un silenzio che non è ignoranza, è scelta. Una scelta editoriale. Una scelta diplomatica. Una scelta morale. E chi sceglie di tacere davanti all’ingiustizia, diventa parte attiva della violenza.
Fame, embargo e genocidio economico
Non si uccide solo con le armi. Si può distruggere un popolo anche negandogli il pane, l’acqua, la medicina. E questo, a Gaza, accade ogni giorno. Il blocco imposto da Israele — e tacitamente sostenuto dall’Egitto — non è solo un meccanismo di controllo: è uno strumento di sofferenza programmata.
Dal 2007, ogni ingresso e uscita è soggetto ad approvazione. Ma da ottobre 2023, la situazione è precipitata: le forniture di carburante sono state interrotte, i camion di aiuti umanitari bloccati alle frontiere, le spedizioni mediche sabotate dalla burocrazia militare. Oggi, nel 2025, Gaza vive una carestia artificiale.
Nei mercati non si trovano più legumi, il riso è razionato, l’acqua contaminata è l’unica disponibile. Le famiglie fanno la fila ore per un pezzo di pane. I bambini si addormentano con lo stomaco vuoto e si risvegliano, quando si risvegliano, in un giorno identico al precedente: fame, paura, silenzio. Alcuni muoiono nel sonno. Non per malattia. Ma per fame.
Secondo le stime ONU, oltre 65.000 bambini soffrono di malnutrizione acuta. Gli ospedali, già privi di tutto, non hanno più latte in polvere, né sacche per flebo. I medici operano a mani nude, in tende improvvisate, sotto il rischio costante di bombardamenti.
La fame è diventata un’arma. Un’arma invisibile, lenta, ma devastante. Un’arma che non fa rumore, ma cancella generazioni. E il mondo continua a inviare aiuti con il contagocce, mentre discute, analizza, prende tempo. Ogni ora di attesa, a Gaza, è una vita che si spegne.
Controllo e sorveglianza: la tecnologia come nuova frontiera della dominazione
Gaza non è solo il luogo della distruzione. È il laboratorio della sorveglianza del futuro. In nessun altro posto al mondo l’occhio dello Stato è così pervasivo. Non si tratta solo di droni armati, ma di un sistema completo: riconoscimento facciale, reti di telecomunicazioni spiate, tecnologie biometriche per la distribuzione degli aiuti.
Israele ha perfezionato in Gaza un modello di gestione della popolazione basato sulla raccolta di dati, sulla tracciabilità assoluta, sull’interconnessione tra militarizzazione e intelligenza artificiale. Un’intera società è ridotta a codice, a target, a rischio calcolabile. Gli esseri umani diventano pixel da seguire, individuare, eliminare.
Dal cielo, ogni movimento è registrato. Al suolo, ogni SIM card, ogni dispositivo elettronico è potenzialmente sotto controllo. Quando arriva un pacco di farina, prima è registrato, poi assegnato, infine tracciato. La fame, in questo contesto, è regolata da un algoritmo. La sopravvivenza, una funzione del permesso accordato.
Il tutto con la benedizione — e il profitto — di aziende occidentali. Il mercato della sicurezza trova in Gaza il banco di prova perfetto. Le tecnologie sviluppate lì vengono poi esportate in Europa, negli Stati Uniti, in Asia. Gaza è la vetrina dell’apartheid tecnologico globale.
E se oggi sono i palestinesi a essere schedati, domani lo sarà chiunque alzerà la voce. Gaza, da questo punto di vista, è già futuro. Ma un futuro che dobbiamo ancora decidere se accettare o combattere.
Disumanizzazione e negazione del lutto: la guerra contro la memoria
Ogni guerra uccide due volte: la prima con la violenza, la seconda con l’oblio. A Gaza, questa seconda morte è altrettanto feroce. Quando un bambino viene ucciso da un raid e nessun giornale ne racconta la storia, quando una madre piange da sola su macerie che il mondo ignora, quella non è solo dimenticanza: è disumanizzazione.
Non c’è diritto al lutto, non c’è spazio per la memoria. I nomi dei morti diventano statistiche, corpi indistinti sommati su infografiche anonime. Ogni funerale è un atto di resistenza. Ogni fotografia, ogni video che documenta il massacro, è un’arma contro l’archivio vuoto del mondo.
La negazione della memoria è il tassello finale del colonialismo. È dire: “non siete mai esistiti, e se siete morti, non era importante”. È il modo più crudele per privare un popolo della propria umanità. E quando si arriva a questo, ogni diritto è già stato negato.
Il futuro negato: Gaza come paradigma globale
Il caso di Gaza non è un’eccezione: è un avvertimento. È il modello di ciò che accade quando il mondo tollera l’apartheid, la colonizzazione, la violenza sistemica. È un laboratorio — non solo per la repressione, ma per l’indifferenza.
Nel 2025, Gaza non è solo un luogo geografico. È una condizione globale: il simbolo di come i diritti umani possono essere sospesi, ignorati, riscritti in nome di interessi economici, di ideologie geopolitiche, di paure confezionate ad arte.
Eppure, Gaza resiste. Con dignità, con parole, con arte, con sopravvivenza quotidiana. Ogni atto di vita a Gaza è una ribellione contro chi la voleva morta. Ogni bambino che ancora ride, ogni madre che ancora insegna, ogni medico che cura senza strumenti, è la prova che l’umanità resiste anche nell’inferno.
Ma la resistenza da sola non basta. Serve verità. Serve solidarietà reale. Serve una giustizia che non sia condizionata da passaporti o religioni. Serve che Gaza non sia più una questione da chiudere tra virgolette, ma una ferita da curare con coscienza collettiva.
Conclusione: Gaza siamo noi
Chi guarda Gaza e distoglie lo sguardo sta scegliendo. Chi tace, sta parlando. Chi giustifica, partecipa. Gaza ci interroga, ci accusa, ci chiama a rispondere. Perché ogni volta che accettiamo che un popolo venga chiuso, affamato, bombardato, schedato — senza reagire — stiamo firmando il futuro del mondo che verrà.
Gaza è oggi il punto più basso dell’etica internazionale. Ma può diventare anche il punto di svolta. Se saremo capaci di guardare negli occhi quella sofferenza e dire: mai più. Non con le frasi fatte. Non con i tweet. Ma con scelte, con atti, con rotture vere.
Gaza siamo noi. Quando resistiamo all’odio. Quando nominiamo le ingiustizie. Quando restituiamo umanità a chi viene negato. Quando non abbiamo paura di dire che il colonialismo è vivo, e che va smascherato. Gaza ci racconta chi siamo. E chi potremmo ancora essere.