Bambini migranti in Italia: più che numeri, sono voci da ascoltare
Bambini migranti Italia. Tre parole che compaiono nei rapporti ufficiali, nei documenti delle ONG, nei titoli dei dossier ministeriali. Ma raramente nei titoli dei giornali. Raramente nelle prime pagine. E quasi mai nei discorsi politici, se non come problema, se non come numero.
Dietro quei numeri ci sono volti, occhi, voci. Voci che nessuno vuole ascoltare.
I bambini migranti in Italia sono migliaia. Alcuni sono arrivati da poco, altri sono nati qui. Alcuni parlano italiano meglio dei loro coetanei. Altri ancora lo stanno imparando. Alcuni sono soli, altri con famiglie fragili, senza casa, senza documenti, senza protezione. Ma tutti hanno una cosa in comune: la necessità di essere ascoltati.
Perché un bambino che non viene ascoltato è un bambino che lentamente scompare.
C’è Amira, 9 anni, arrivata con la madre dal Sudan. Parla poco, ma disegna molto. Nei suoi disegni ci sono sempre due barche: una che affonda e una che la salva. Nessuno le ha mai chiesto di cosa ha bisogno. Nessuno le ha chiesto se dorme bene la notte. Le hanno solo detto che deve imparare l’italiano, che deve fare attenzione ai compiti.
E poi c’è Rachid, 11 anni, nato in Italia da genitori marocchini. Vive a Torino, ma non è cittadino italiano. Gli hanno detto che è “straniero”, anche se tifa Juventus, ama la pizza e gioca a calcetto con i compagni italiani. Quando ha chiesto perché lui non può andare in gita all’estero con la scuola, non gli hanno saputo rispondere. “È complicato”, gli hanno detto.
La burocrazia è il primo muro invisibile che i bambini migranti incontrano. Documenti che mancano, carte da compilare, permessi da rinnovare. La scuola spesso non sa come muoversi. Le famiglie non parlano la lingua. I servizi sociali sono sovraccarichi. E così, tutto si complica. Anche le cose più semplici diventano un labirinto.
Ma un bambino non dovrebbe vivere in un labirinto.
Un bambino dovrebbe giocare, crescere, essere libero di imparare, sbagliare, essere accolto.
In molte scuole italiane, i bambini migranti vengono inseriti nelle classi senza alcun supporto linguistico o psicologico. Alcuni insegnanti fanno miracoli. Altri si limitano a dire: “Si deve adattare.” Ma come si adatta un bambino che non capisce le istruzioni? Che viene deriso dai compagni? Che non sa spiegare che ha mal di pancia o che ha paura?
L’integrazione non si fa per decreto.
Si fa ascoltando. Si fa riconoscendo l’altro come parte del tutto.
Si fa costruendo spazi dove ogni bambino possa sentirsi parte, non ospite.
Molti bambini migranti raccontano con difficoltà il loro passato. Non perché non vogliano. Ma perché non sanno se verranno creduti. Non sanno se saranno puniti per quello che diranno. Hanno imparato che è meglio tacere. Per sopravvivere. Per non disturbare. Per non finire in un centro per minori. Per non essere rimpatriati.
E il silenzio, alla lunga, diventa parte di loro.
Ma c’è chi riesce a parlare. A raccontare. A urlare persino. E a volte, la risposta è un’altra barriera: “Non puoi restare.” Anche se sei solo. Anche se hai paura. Anche se l’unico mondo che conosci è quello dove ora ti stanno dicendo che non sei il benvenuto.
L’Italia ha una lunga tradizione di accoglienza. Ma ha anche una lunga storia di ambiguità verso l’infanzia migrante. Alcune regioni garantiscono servizi eccellenti, doposcuola, mediazione culturale, supporto psicologico. Altre lasciano tutto sulle spalle delle associazioni. Altre ancora ignorano il problema.
E intanto, i bambini crescono.
Crescono senza essere visti, senza essere riconosciuti.
E a volte, senza essere ricordati.
“Bambini migranti Italia” non dovrebbe essere una categoria.
Dovrebbe essere solo “bambini”. Punto.
Con gli stessi diritti. Con le stesse opportunità. Con la stessa attenzione.
Ma per fare questo, bisogna cambiare il linguaggio.
Non “emergenza migranti”, ma “presenza di nuovi cittadini”.
Non “integrazione forzata”, ma “convivenza da costruire insieme”.
Non “problema”, ma “ricchezza”.
Perché questi bambini portano con sé storie, lingue, culture, sogni.
E noi abbiamo solo due possibilità: ascoltarli e crescere.
O ignorarli e perderli.
Quando perdiamo un bambino, perdiamo un pezzo di futuro.
E questo vale per tutti i bambini, non solo per quelli che hanno il “documento giusto”.
Bambini migranti Italia.
Dovremmo imparare a pronunciare queste parole con rispetto, con attenzione, con responsabilità.
E soprattutto, dovremmo imparare ad ascoltarli.
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