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domenica, 22 Giugno,2025

Bambini rom e pregiudizi: l’infanzia rubata tra baracche e sospetti

Bambini rom e discriminazione sistemica: storie ignorate ogni giorno

Bambini rom discriminazione. Tre parole che, nella società italiana, si intrecciano troppo spesso come se fossero inevitabili. Come se nascere rom significasse per forza nascere colpevoli. Colpevoli di cosa? Di esistere.

La discriminazione verso i bambini rom comincia ancora prima della nascita, si fa struttura, si fa ambiente, si fa linguaggio. È negli sguardi. È nei titoli di giornale. È nei discorsi dei politici. È nelle scuole, nelle istituzioni, nei quartieri. È nella decisione di confinare intere famiglie ai margini della città. Ed è nella nostra abitudine a non farci caso.


Ci sono bambini che crescono in baracche senza elettricità.
Che giocano tra rifiuti, respirando fumi tossici, spesso senza acqua potabile.
Bambini che si svegliano con il rumore delle ruspe, che cancellano le loro case “abusive”.
Che si spostano da un campo all’altro senza mai sentirsi al sicuro.

Sono bambini. Ma vengono trattati come problemi.


“Tanto rubano tutti.”
“Non vogliono lavorare.”
“Non mandano i figli a scuola.”

Quante volte abbiamo sentito queste frasi?
Ripetute, generalizzate, accettate come verità. Ma la verità è ben diversa.
La verità è che il sistema è fatto per escluderli. E che la scuola, il lavoro, la casa, sono diritti che troppo spesso a loro non vengono garantiti.


Molti bambini rom vorrebbero andare a scuola. Alcuni lo fanno, con entusiasmo. Ma incontrano ostacoli enormi: difficoltà linguistiche, genitori analfabeti, frequenti cambi di residenza, assenza di trasporto pubblico. E soprattutto, preconcetti.

Ci sono insegnanti che li accolgono. Ma ci sono anche docenti che li tengono a distanza.
Classi che li isolano.
Compagni che li evitano.
Genitori che protestano perché “non vogliono zingari in aula con i loro figli”.


Il risultato? Bambini che si sentono indesiderati. Invisibili. Esclusi.
Che smettono di partecipare, che abbandonano, che si convincono di non essere all’altezza.
Che crescono con un’idea precisa: il mondo non li vuole.


La discriminazione verso i bambini rom è spesso fatta di piccoli gesti quotidiani.
Di domande come: “Ma sei sporco perché sei rom?”
Di risatine. Di soprannomi. Di interrogazioni negate.
Di visite mediche negate perché “il campo non ha indirizzo”.
Di famiglie che si vergognano del proprio cognome.
Di madri che cambiano nome ai figli per non farli riconoscere.


Eppure, i bambini rom ridono. Giocano. Imparano in fretta.
Sognano. Come tutti i bambini.
Solo che lo fanno tra mille ostacoli.
Tra mille barriere.
Tra mille silenzi.


Il problema non sono loro.
Il problema è il pregiudizio che li accompagna ovunque.
Quel sospetto generalizzato che li precede.
Che li segna prima ancora che possano parlare.


Ci sono Comuni in Italia che ancora oggi costruiscono campi recintati, segregati, lontani dai centri abitati.
Dove i bambini devono attraversare chilometri per arrivare a scuola.
Dove non ci sono spazi di gioco, né centri sportivi, né biblioteche.
Dove i mezzi pubblici non arrivano.
Dove il freddo entra dai tetti bucati, e la pioggia scorre dentro casa.


Poi ci sono sgomberi.
Violenti. Freddi. Improvvisi.
La ruspa arriva, la casa viene abbattuta, i giochi buttati via.
Nessuna alternativa reale. Solo un’altra strada. Un altro campo. Un altro parcheggio.
E i bambini, ancora una volta, trascinati altrove.


La legge italiana prevede il diritto allo studio, alla salute, all’abitare.
Ma per molti bambini rom questi sono solo articoli sulla carta.
La realtà è una condanna a essere trattati come cittadini di serie Z.
E questo è razzismo istituzionale.


La politica spesso non aiuta.
Anzi, alimenta.
Quando un ministro definisce un bambino rom come “futuro delinquente”.
Quando un sindaco parla di “emergenza nomadi” come se si trattasse di un virus.
Quando si costruiscono campi attorno a discariche.
Quando si tagliano i fondi ai mediatori culturali.
Quando si impedisce la residenza anagrafica per chi vive in un campo.


Eppure, ci sono esempi di resistenza.
Ci sono scuole dove insegnanti e studenti lottano contro i pregiudizi.
Ci sono associazioni che accompagnano le famiglie.
Ci sono progetti di inclusione, anche se pochi e fragili.
Ci sono madri rom che ogni mattina portano i figli a scuola, sfidando lo stigma.
Ci sono bambini che, nonostante tutto, ce la fanno.


Ma non dovrebbe essere una sfida.
Dovrebbe essere un diritto.


Essere rom non è una colpa.
Essere poveri non è una colpa.
Essere nati in un campo non è una colpa.
La colpa è di chi costruisce un sistema che esclude.


I bambini rom non hanno bisogno di pietà.
Hanno bisogno di uguaglianza.
Di dignità.
Di ascolto.


La stampa dovrebbe raccontare le loro storie, non solo quando “rubano”, ma quando vincono un premio scolastico, quando difendono un compagno, quando sognano un futuro da maestri, dottori, poeti.

Perché ci sono.
Vivono accanto a noi.
E meritano lo stesso futuro.


Bambini rom discriminazione.
Due parole che devono smettere di andare insieme.
Perché non c’è nulla di naturale nella discriminazione.
È costruita. È appresa. È politica.

E quindi può essere anche smontata.


🔗 Link interno suggerito:

👉 Bambini nei campi rom: tra emarginazione e sogni negati

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