Bambine vittime di tratta: riconoscere il volto nascosto della violenza
Bambine vittime di tratta. Tre parole che raccontano una realtà scomoda, oscura, difficile da guardare in faccia. Una realtà che attraversa confini, mari, strade. E che spesso si nasconde proprio sotto i nostri occhi.
Ci sono bambine che non vanno a scuola. Bambine che non giocano. Bambine che imparano troppo presto a sorridere quando non vogliono. A dire sì quando vorrebbero urlare no. Bambine che diventano merce. Corpi da usare, da spostare, da vendere. Bambine che scompaiono dalle statistiche, dalle pagine dei giornali, dalla coscienza collettiva.
In Italia, la tratta di esseri umani è una realtà viva, presente, organizzata. E tra le sue vittime più invisibili ci sono le bambine. Spesso migranti. Spesso sole. Spesso convinte di venire qui per un futuro migliore. Spesso ingannate, comprate, sfruttate.
Arrivano da Nigeria, Costa d’Avorio, Romania, Albania, Bangladesh. Alcune hanno 17 anni. Altre 14. Altre ancora molto meno, ma dichiarano un’età finta per “essere più forti”. Portano con sé poche cose: una valigia, un numero di telefono, una promessa. Quella promessa si trasforma presto in catena.
Molte vengono intercettate ai confini. Altre durante controlli nelle strade. Altre ancora non vengono mai viste. Entrano nel circuito dello sfruttamento sessuale, dei lavori forzati, della mendicità organizzata. Sono costrette a vendere il proprio corpo per pagare un debito. Spesso quel debito è falso, ma serve a tenerle in ostaggio.
Le “madame”, i trafficanti, i clienti, i complici: tutti partecipano a un sistema che usa la vulnerabilità delle bambine come motore. Un sistema che si nutre del silenzio. Dell’indifferenza. Della difficoltà di riconoscere una bambina vittima come tale.
Alcune vengono tenute in appartamenti anonimi, sorvegliate, minacciate. Altre dormono in dormitori, in stazioni, nei centri per migranti. Nessuno fa domande. Nessuno controlla davvero. Nessuno chiede: “Come stai?” oppure “Hai bisogno di aiuto?”
Perché aiutare richiede ascolto. Tempo. Empatia. Richiede di crederci. Di vedere. E molti preferiscono non vedere. O peggio: colpevolizzare.
“Se lo fa, vuol dire che le va bene.”
“Avrà deciso lei.”
“Ma non sembra una bambina.”
“È solo una straniera.”
La narrazione dominante contribuisce a coprire la verità. I titoli parlano di “baby prostitute”, di “ragazze complici”, di “minorenni coinvolte”. Ma non sono coinvolte. Sono vittime. Vittime di un sistema che le ha prese, trasformate, piegate.
Il linguaggio è importante.
Definire una bambina sfruttata come “prostituta” è una violenza.
Raccontarla come “una che si è messa nei guai” è una forma di complicità.
Sminuire, negare, deridere: è così che si protegge il sistema della tratta.
Il trauma che queste bambine subiscono è multiplo.
Fisico, psicologico, emotivo.
Alcune smettono di parlare. Altre diventano aggressive. Altre ancora sviluppano disturbi alimentari, incubi, ansia costante.
Vivono in allerta, come se ogni momento fosse l’ultimo.
Diffidano di tutti. Anche di chi vorrebbe aiutarle.
Perché troppe volte si sono fidate, e sono state tradite.
Il sistema di protezione italiano prevede percorsi per le vittime di tratta. Ma non sempre funzionano. I fondi sono limitati. Le strutture poche. Il personale spesso non formato. I tempi lunghi. Le procedure complesse.
E intanto le bambine restano in sospeso. Tra la fuga e la paura. Tra il ricatto e l’abbandono.
Ci sono operatori straordinari. Educatrici, assistenti sociali, mediatori culturali che fanno il possibile. Ma sono pochi. E spesso lasciati soli. A combattere contro un sistema che è più forte, più rapido, più radicato.
E poi ci sono le istituzioni. Quelle che parlano di “emergenza sicurezza”, ma ignorano che nelle strade italiane ci sono minorenni sfruttate ogni notte. Quelle che fanno leggi sull’immigrazione, ma non prevedono reali percorsi di protezione per le vittime. Quelle che tagliano i fondi ai servizi sociali, e poi si scandalizzano quando una bambina scompare.
Non si tratta solo di protezione.
Si tratta di riconoscimento.
Di dare un nome, un volto, una dignità a queste bambine.
Si tratta di credere che una bambina migrante può essere una vittima.
Anche se non chiede aiuto.
Anche se non piange.
Anche se ha imparato a sorridere per difendersi.
Le bambine vittime di tratta hanno bisogno di:
– Tutori legali affidabili
– Percorsi terapeutici stabili e duraturi
– Luoghi protetti, non temporanei
– Insegnanti formati e non giudicanti
– Comunità che non le isoli
– Stato che le riconosca
Ma prima di tutto, hanno bisogno di essere credute.
Perché in un mondo che le ha trasformate in oggetti, credere alla loro storia è il primo passo per restituire loro l’umanità.
Alcune riescono a uscirne.
Con fatica, con il supporto giusto, con anni di lavoro.
Ma portano cicatrici profonde.
E spesso, la società non è pronta ad accoglierle nemmeno dopo.
Vengono viste come “problematiche”.
Come “difficili”.
Come “ragazze da recuperare”.
Quando in realtà sono sopravvissute.
Sono guerriere.
Sono bambine a cui è stato negato il diritto di essere bambine.
La tratta non è lontana.
È nei quartieri delle nostre città.
Nelle stazioni. Nei bordi delle strade. Negli annunci online.
E le vittime non sono solo numeri.
Sono vite.
Bambine vittime di tratta.
Dovremmo iniziare a dirlo ad alta voce.
Dovremmo iniziare a guardarci intorno.
Dovremmo iniziare a denunciare ogni silenzio.
Perché ogni volta che voltiamo lo sguardo,
una bambina scompare.
Link interno suggerito:
La voce dei bambini migranti: quello che nessuno vuole ascoltare