Razzismo bambini: quando la discriminazione comincia dall’infanzia
Razzismo bambini. Due parole che, accostate, dovrebbero farci tremare. E invece, troppo spesso, non fanno nemmeno notizia. Perché siamo abituati a pensare al razzismo come qualcosa che riguarda i grandi, gli adulti, i conflitti tra etnie, le ideologie. Ma il razzismo inizia molto prima. Inizia nei primi anni di vita. Inizia nel linguaggio, negli sguardi, nelle risate di scherno, nei silenzi degli educatori. Inizia anche quando non ce ne accorgiamo. E colpisce chi non ha ancora le parole per difendersi.
C’è Sara, 6 anni, origini etiopi, adottata da una coppia italiana. I compagni di scuola le toccano i capelli e ridono. La chiamano “scimmia”. Lei all’inizio rideva con loro, perché non capiva. Poi ha smesso di parlare.
C’è Yusuf, 9 anni, nato in Italia da genitori tunisini. Non è stato invitato alla festa di compleanno del compagno “perché i suoi genitori sono musulmani”. Gli è stato detto apertamente. Gli adulti presenti non hanno detto nulla.
C’è Arin, 7 anni, rom, che ogni mattina percorre due chilometri a piedi per arrivare a scuola dal campo. La sua maestra dice che è “svogliata”. Ma nessuno le ha mai chiesto come vive.
Queste storie esistono. Sono quotidiane. Ma non finiscono sui giornali. Non fanno titoli. Perché c’è ancora l’idea che i bambini siano “troppo piccoli per capire” o che “i bambini non fanno differenze”.
Eppure le fanno. Perché le apprendono. Dal mondo che li circonda. Dai discorsi dei genitori. Dalle battute degli adulti. Dalle esclusioni implicite. Dalla TV. Dai social. E soprattutto: dal silenzio.
Il razzismo verso i bambini si manifesta in mille modi. Alcuni evidenti. Altri sottili. Alcuni gridati. Altri sussurrati. Ma tutti lasciano un segno. E quel segno può diventare cicatrice.
C’è il razzismo nei giochi: il bambino nero che non può fare il principe.
C’è il razzismo nelle battute: “Sembri uno zingaro.”
C’è il razzismo nei ruoli scolastici: mai affidare il registro a Fatima, “tanto poi se lo dimentica”.
C’è il razzismo nelle aspettative: il figlio dell’immigrato che non viene spinto a fare il liceo.
C’è il razzismo negli sguardi: al supermercato, sull’autobus, al parco.
Uno studio recente condotto da Save the Children ha mostrato che in Italia oltre il 30% dei bambini di origine straniera si è sentito discriminato almeno una volta a scuola. Ma la realtà è che la maggior parte non lo dice. Non trova le parole. Non trova ascolto.
I genitori spesso sono i primi a minimizzare. “Sono bambini, si chiariranno.”
Gli insegnanti non sempre sono formati per riconoscere il razzismo sottile.
Le istituzioni scolastiche, quando ricevono segnalazioni, preferiscono chiudere la questione rapidamente. Senza affrontarla davvero.
E così, il razzismo si stratifica. Diventa parte della crescita. Della percezione di sé. Bambini che si vergognano del proprio nome. Che chiedono ai genitori di parlare solo italiano. Che non vogliono che li vengano a prendere a scuola. Che cancellano la propria identità per cercare di essere accettati.
Ma non è accettazione. È adattamento forzato. E ha un prezzo altissimo.
Il razzismo verso i bambini è una forma di violenza.
Non lascia lividi, ma lascia danni profondi.
Influenza l’autostima, il rendimento scolastico, la socializzazione.
Innesca senso di colpa, frustrazione, rabbia.
E soprattutto, toglie futuro.
Perché un bambino che cresce sentendosi “diverso” in senso negativo, avrà più difficoltà a credere in sé. A prendersi il proprio spazio. A sognare.
Il razzismo non riguarda solo il colore della pelle. Riguarda anche la lingua, l’origine sociale, la religione, l’odore del cibo nello zaino. Riguarda l’abbigliamento, il cognome, l’accento dei genitori.
Ed è presente ovunque:
Nelle scuole.
Nelle mense scolastiche.
Nei gruppi sportivi.
Nelle chat delle mamme.
Nelle aule di tribunale.
Ci sono bambini a cui viene negata la residenza perché la famiglia vive in un alloggio informale. Senza residenza, niente pediatra, niente scuola, niente documenti.
Ci sono bambini che crescono nei centri di accoglienza per minori non accompagnati e che vengono trattati come adulti.
Ci sono bambini che subiscono controlli di polizia più frequenti solo perché hanno la pelle scura.
Il razzismo nei confronti dei bambini è anche istituzionale. Quando lo Stato non garantisce parità di accesso ai servizi. Quando la scuola non dispone di mediatori culturali. Quando non ci sono fondi per l’inclusione. Quando i programmi scolastici non parlano di pluralità, di migrazioni, di diritti.
Ma non tutto è perduto.
Ci sono educatori, insegnanti, pediatri, attivisti che ogni giorno costruiscono spazi di inclusione.
Ci sono scuole che promuovono l’intercultura.
Ci sono progetti che danno voce ai bambini migranti, rom, neri, musulmani, asiatici.
Ci sono libri, film, fumetti che raccontano storie diverse.
Ci sono famiglie che educano al rispetto, all’ascolto, alla solidarietà.
Cambiare è possibile. Ma bisogna cominciare da chi è più vulnerabile. Dai bambini.
Parlarne.
Nominarlo.
Denunciarlo.
Formare.
Educare.
Un bambino che cresce in un ambiente inclusivo diventerà un adulto più giusto.
Un bambino che viene ascoltato sarà un adulto capace di ascoltare.
Un bambino che non viene discriminato sarà un adulto che non discrimina.
Razzismo bambini. Non deve più essere una combinazione possibile.
Non deve più accadere.
E ogni volta che succede, dobbiamo raccontarlo.
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