Razzismo sistemico: come funziona la discriminazione invisibile nelle nostre istituzioni
Il razzismo non è sempre un insulto, un’aggressione, una svastica su un muro. A volte è silenzioso. Invisibile. Intrecciato così a fondo nelle regole della società che sembra normale, inevitabile, persino giusto. Questo è il razzismo sistemico: non l’eccezione, ma la regola. Non il gesto isolato, ma la struttura che lo rende possibile. È ciò che impedisce a una persona nera di affittare una casa in centro anche se ha un contratto di lavoro. È la porta che si chiude ogni volta che un nome “strano” appare su un curriculum. È l’agente che ferma sempre gli stessi corpi, gli stessi volti, perché “sembrano sospetti”. È l’insegnante che abbassa le aspettative per un bambino nato altrove. È l’informazione che parla di qualcuno ma non gli dà mai voce. È la discriminazione che non ha bisogno di gridare: è già nella legge, nel sistema, nella prassi.
Il razzismo sistemico non ha bisogno di cattiveria individuale. Non serve che qualcuno odi un altro. Basta che tutti continuino a fare quello che hanno sempre fatto, che si affidino a procedure “neutrali”, a regole “standardizzate” che però, nei fatti, escludono sempre gli stessi. È un sistema che si autoalimenta: chi parte avvantaggiato continuerà a essere favorito. Chi parte svantaggiato avrà più ostacoli, più controlli, più sospetti, meno fiducia. Il merito? Diventa una trappola: chi ce la fa “è bravo”, chi non ce la fa “non si è impegnato abbastanza”. Ma nessuno guarda le condizioni di partenza. Nessuno si chiede perché a parità di talento, di studio, di impegno, alcuni rimangono sempre fuori.
In Italia, il razzismo sistemico è un tabù. Preferiamo raccontarci che il razzismo “non c’è più”, che siamo un paese accogliente, aperto, tollerante. Ma i numeri raccontano un’altra storia. Le persone con cittadinanza straniera, anche se nate qui, hanno meno accesso al lavoro qualificato, agli alloggi dignitosi, ai servizi sanitari completi. Hanno più probabilità di essere fermate per controlli, più difficoltà a ottenere la cittadinanza, più ostacoli burocratici. Le donne migranti sono le più penalizzate: precarietà, lavoro nero, sfruttamento, invisibilità. Ma se ne parla poco. Perché il sistema funziona così bene che riesce a far sembrare normale l’ingiustizia.
Il mito di un’Italia “non razzista” è smontato nell’inchiesta “Razzismo in Italia oggi: leggi, media e attivismo 2025”, che mostra come il razzismo sistemico venga negato anche quando è sotto gli occhi di tutti.
Pensiamo alla scuola. Un luogo che dovrebbe essere inclusivo, uguale per tutti. Eppure, molti studenti con background migratorio vengono indirizzati più facilmente verso percorsi professionali, anche quando hanno voti eccellenti. L’orientamento scolastico diventa selezione sociale. Le aspettative più basse portano a risultati più bassi. Si crea un circolo vizioso. Non per odio, ma per abitudine. Non per malizia, ma per mancanza di strumenti.
O pensiamo alla sanità. I pazienti stranieri, soprattutto se non parlano perfettamente italiano, ricevono meno attenzione, meno ascolto, meno empatia. Spesso vengono trattati come casi “complicati”, “problematici”, da gestire in fretta. Anche qui: non serve un dottore razzista. Basta un sistema che non prevede mediazione linguistica, che non forma il personale su come affrontare la diversità culturale, che scarica sul singolo operatore responsabilità che sarebbero strutturali.
Il razzismo sistemico agisce anche nei media. Chi parla? Chi viene intervistato? Chi ha diritto alla parola? Raramente le persone razzializzate parlano in prima persona. Più spesso sono raccontate da altri, inquadrate come problemi da gestire, emergenze da risolvere, eccezioni da tollerare. Questo schema si ripete ovunque: nella cronaca, nella politica, nella cultura. Così si costruisce un’immagine distorta, parziale, pericolosa.
E poi ci sono le leggi. Il razzismo sistemico vive anche nelle norme. La legge sulla cittadinanza, ad esempio, è uno dei casi più evidenti. Chi nasce e cresce in Italia, ma ha genitori stranieri, resta per anni senza diritti pieni. È un cittadino di fatto, ma non di diritto. Deve aspettare i 18 anni per fare richiesta. E può anche vedersela negare, senza spiegazioni. Questo crea frustrazione, esclusione, sfiducia nelle istituzioni. Come si può sentirsi parte di un paese che non ti riconosce?
Meccanismi simili sono stati approfonditi nell’articolo “Islamofobia e politica europea: come le leggi legittimano la discriminazione”, dove si evidenzia come il razzismo istituzionale agisca attraverso le norme.
Il sistema carcerario è un altro esempio. La percentuale di detenuti stranieri è sproporzionata rispetto alla popolazione. Spesso sono in carcere per reati minori, per reati legati al soggiorno o alla marginalità. La detenzione preventiva viene applicata più facilmente. Le alternative al carcere sono meno accessibili. Il razzismo qui non è solo nelle persone, ma nel modo in cui le norme vengono applicate.
Il razzismo sistemico è difficile da combattere perché non ha un volto, non ha un colpevole. Non puoi denunciarlo come fai con un insulto. Devi smontarlo pezzo per pezzo. Devi analizzare le regole, i meccanismi, i dati. Devi ascoltare chi ne è vittima, anche quando non urla. Anzi: soprattutto quando non urla. Perché il razzismo sistemico è silenzioso, ma efficace. E fa male.
Ma ci sono modi per reagire. Ci sono scuole che cambiano l’approccio, che formano docenti e studenti sulla discriminazione implicita. Ci sono medici che si battono per un sistema sanitario interculturale. Ci sono giornalisti che scelgono di dare spazio a voci diverse, di raccontare storie vere senza stereotipi. Ci sono attivisti che lavorano ogni giorno per smascherare il razzismo nascosto dietro la burocrazia.
E ci siamo anche noi. Con le parole, con gli articoli, con la volontà di non lasciar correre. Parlare di razzismo sistemico significa guardare in faccia una realtà scomoda, ma necessaria. Significa cambiare prospettiva. Non basta dire “non sono razzista”. Bisogna chiedersi: sto partecipando, anche senza volerlo, a un sistema che discrimina?
Solo così si può iniziare a cambiare davvero. Non con la retorica, ma con la consapevolezza. Con la responsabilità. E con il coraggio di rompere il silenzio.