Bullismo digitale organizzato: il branco nascosto tra WhatsApp e Telegram
C’è un nuovo branco in città. Non ha una tana né si raduna al parco. Non urla, non corre per i corridoi delle scuole, non fa a pugni dietro i distributori automatici. Questo branco si muove in silenzio, tra le vibrazioni di uno smartphone e le notifiche di un gruppo chiuso. Non ha bisogno di nascondersi: si confonde tra i messaggi degli amici, tra i meme condivisi e gli audio vocali apparentemente innocui. Eppure, è proprio lì che il bullismo digitale organizzato prende forma: tra le chat di WhatsApp e i canali segreti di Telegram.
Il branco digitale non nasce per caso. Si forma lentamente, con piccoli segnali. Un messaggio ironico, un soprannome cattivo, un commento fuori luogo. Poi il gruppo cresce. Si crea una complicità tra chi insulta e chi ride. Tra chi attacca e chi osserva in silenzio. L’obiettivo viene scelto, spesso senza una vera ragione. È “quello strano”, “quella che non si trucca”, “quello che parla poco”, “quella che porta il velo”, “quello che è troppo grasso”, “quella che è troppo maschiaccio”. Basta poco. Bastano le differenze.
Una volta scelto il bersaglio, il branco si coordina. Su WhatsApp si aprono chat parallele: “GRUPPO VERO”, “TUTTI TRANNE LUI”, “QUELLA POVERACCIA”. Su Telegram si usano canali silenziosi, dove le immagini possono essere inoltrate senza mostrare l’identità del mittente. Si organizzano raid digitali: commenti offensivi sotto i post, condivisioni di video privati, creazione di meme umilianti. Il tutto con una freddezza inquietante. È un bullismo chirurgico, senza volto ma con uno scopo preciso: distruggere.
Un approfondimento simile su come l’odio corre tra gli adolescenti nei gruppi WhatsApp è stato raccontato in “Odio in chat: il razzismo tra adolescenti passa anche da WhatsApp”, dove le dinamiche discriminatorie si intrecciano con l’uso distorto delle tecnologie quotidiane.
Chi finisce nel mirino del branco digitale si trova spesso solo. Non c’è modo di scappare: il cellulare è sempre con sé, la notifica arriva anche di notte, i messaggi continuano anche quando si è in classe o a cena. Le parole fanno più male perché restano scritte, si possono rileggere, si possono mostrare. Eppure, spesso non si mostrano. Per vergogna. Per paura. Perché chi denuncia viene visto come “quello che non sa stare allo scherzo”, come il problema, non come la vittima.
Dietro questa dinamica c’è un sistema intero che fallisce. Famiglie distratte, scuole in difficoltà, piattaforme digitali che si dichiarano “non responsabili dei contenuti degli utenti”. Intanto i gruppi si moltiplicano. Alcuni hanno decine di partecipanti. Ragazzini di 13, 14 anni che si passano foto, video, screenshot, che programmano la prossima “figuraccia pubblica” da far vivere alla vittima. Ogni gesto è una performance, ogni umiliazione è uno spettacolo. Il branco guarda, ride, reagisce con emoji. Nessuno si tira indietro. Perché chi prova a dire “basta” rischia di diventare il prossimo bersaglio.
Ci sono storie che non vengono mai raccontate. Come quella di Giulia, 15 anni, che dopo settimane di silenzio ha mostrato ai genitori i messaggi ricevuti su Telegram: “Sparisci, nessuno ti vuole”, “Fai schifo, sei solo una sfigata”. Le avevano creato un meme con il suo volto accanto a una foto di un animale. Lo avevano girato in tre gruppi diversi. Uno aveva più di cinquanta iscritti. Lei non aveva mai risposto. Aveva solo pianto, in silenzio, ogni notte.
O la storia di Karim, 13 anni, che veniva preso in giro perché era il solo a non avere le scarpe firmate. I suoi compagni avevano fatto un video mentre gli svuotavano lo zaino. Poi l’avevano montato con una colonna sonora ridicola e l’avevano condiviso su WhatsApp. Il titolo del video? “Karim lo scroccone”. Aveva fatto il giro della scuola in meno di un’ora. Nessuno aveva preso le sue difese. Nessuno, nemmeno i professori.
Meccanismi simili si ritrovano anche nei contenuti virali su piattaforme video: lo abbiamo raccontato in “Bullismo e TikTok: il palcoscenico dell’umiliazione”, dove l’umiliazione diventa intrattenimento e il dolore un contenuto da condividere.
E poi c’è Luca, 17 anni, che ha creato un gruppo con altri coetanei per “dare una lezione” a una compagna transgender. “Solo scherzi”, dicevano. “Solo battute tra amici”. Ma quella ragazza ha cambiato scuola. Ha lasciato tutto. Nessuno ha mai pagato per quello che ha subito. Luca non ha mai cancellato quel gruppo. È ancora lì, vivo. E continua a ridere con gli altri.
Il branco digitale non agisce nell’ombra: si muove alla luce dei nostri schermi, con la nostra connivenza. È il frutto di un’educazione mancata, di adulti che ignorano, di istituzioni che non sanno rispondere. È l’evoluzione di un bullismo antico, che ha trovato nei dispositivi un’arma perfetta: invisibile, veloce, permanente. Perché nel mondo digitale tutto può essere salvato, tutto può essere condiviso, tutto può essere archiviato. Anche l’odio.
Ma c’è anche chi resiste. Gruppi di ragazzi che si ribellano, che escono dai gruppi tossici, che denunciano, che aiutano. Docenti che parlano apertamente in classe, che chiedono ai ragazzi di riflettere su ogni messaggio inviato. Genitori che imparano a usare Telegram non per spiare, ma per capire. Attivisti che insegnano ai giovani a difendersi, a riconoscere il branco, a dire no prima di diventare complici.
Contrastare il bullismo digitale organizzato non significa solo punire. Significa costruire nuovi strumenti educativi, emotivi, culturali. Significa insegnare che il silenzio è partecipazione. Che ogni “mi piace” sotto un insulto è una coltellata in più. Che il branco esiste solo finché ci sono spettatori. E che per rompere quel branco basta a volte una sola voce. Una voce che dica: “Basta”.
Perché il bullismo digitale non è inevitabile. È costruito, giorno dopo giorno, messaggio dopo messaggio. Ma può essere smontato. Con lo stesso metodo: un messaggio alla volta, un’azione alla volta, una scelta alla volta. E quella scelta può essere la nostra.