Il razzismo non ha sempre il volto scoperto dell’insulto o dell’aggressione. Spesso assume forme molto più sottili, più accettate, più difficili da denunciare. Una di queste forme è il razzismo linguistico: quella violenza invisibile che trasforma le parole, gli accenti, gli errori grammaticali o la pronuncia in strumenti di esclusione e gerarchia sociale. In Italia, dove la lingua è da sempre strumento di definizione identitaria, il razzismo linguistico agisce ogni giorno, penalizzando chi parla “diversamente”, chi fatica con la grammatica, chi porta dentro la propria voce le tracce di un’altra origine.
Il potere sociale della lingua
La lingua non è mai solo uno strumento neutro di comunicazione. Ogni lingua porta con sé valori, gerarchie, poteri. Parlare “bene” o “male” una lingua, rispettarne o meno le regole grammaticali, adottare o meno un certo accento, colloca immediatamente una persona su una scala sociale invisibile. In Italia, parlare un italiano perfetto, privo di inflessioni, con dizione standard, significa essere percepiti come più colti, più affidabili, più “italiani veri”.
Al contrario, l’errore grammaticale, la cadenza straniera, il lessico incerto, l’accento regionale marcato diventano marchi di inferiorità, oggetto di ironia, di correzione continua, di giudizio. Non è solo questione di “buona educazione linguistica”: è una questione di potere. Chi detiene il controllo sulla lingua controlla anche l’accesso alle opportunità sociali.
La scuola come primo luogo di esclusione
Fin dai primi anni di scuola, il razzismo linguistico inizia a colpire. I bambini figli di migranti, o quelli appartenenti a minoranze linguistiche, vengono spesso giudicati per la loro competenza linguistica prima ancora che per le loro capacità complessive. Gli errori di pronuncia, la difficoltà nel coniugare i verbi, l’uso scorretto dei pronomi diventano motivo di correzione ossessiva e, spesso, di esclusione dal gruppo classe.
Alcuni insegnanti, invece di supportare il percorso di apprendimento, trasformano ogni errore in una colpa. I compagni di classe imparano presto a ridicolizzare l’accento diverso, il termine sbagliato, la grammatica incerta. Così, giorno dopo giorno, si costruisce un senso di inadeguatezza profonda nei bambini, che interiorizzano il messaggio: “tu non parli bene, quindi non vali quanto gli altri”.
Il colloquio di lavoro e la discriminazione dell’accento
Nel mercato del lavoro, il razzismo linguistico si manifesta in modo ancora più evidente. I candidati con un accento straniero, con una dizione non perfetta o con un lessico incerto vengono spesso scartati a priori, indipendentemente dalle loro competenze reali. La padronanza linguistica diventa filtro di selezione mascherato da “professionalità”.
Molti raccontano di colloqui terminati in pochi minuti non appena il selezionatore percepiva un accento straniero. In altri casi, i candidati vengono indirizzati verso ruoli di basso profilo proprio in virtù di una presunta “inadeguatezza comunicativa”. Ancora una volta, non è la competenza che viene valutata, ma il rispetto di uno standard linguistico imposto.
La pubblica amministrazione e la burocrazia escludente
Anche nella relazione con le istituzioni, il razzismo linguistico agisce con forza. I moduli amministrativi, i documenti legali, i procedimenti burocratici sono spesso redatti in un italiano tecnico, complicato, difficile da comprendere anche per molti cittadini madrelingua. Per chi non padroneggia perfettamente la lingua, questi ostacoli diventano insormontabili.
Gli sportelli pubblici non sempre forniscono traduzioni o mediazioni culturali adeguate. Chi sbaglia a compilare un modulo, chi non comprende una richiesta, rischia di vedersi negare documenti fondamentali come il permesso di soggiorno, la cittadinanza, l’accesso a prestazioni sociali. Così, la lingua diventa strumento di esclusione amministrativa, perpetuando disuguaglianze e precarietà.
I media e la stigmatizzazione costante
I mezzi di informazione giocano un ruolo centrale nella diffusione del razzismo linguistico. I talk show televisivi, i telegiornali, le rubriche radiofoniche spesso ironizzano sugli errori linguistici dei migranti o dei politici di origine straniera. Le gaffe linguistiche diventano virali, alimentando la percezione che chi parla “male” sia culturalmente e intellettualmente inferiore.
Anche nei servizi di cronaca, le testimonianze di persone migranti vengono frequentemente ridicolizzate per il loro italiano incerto. Questo trattamento mediatico rafforza l’idea che la legittimità a parlare nello spazio pubblico dipenda dalla padronanza perfetta della lingua standard. Chi non la possiede viene marginalizzato, delegittimato, silenziato.
Le seconde generazioni sotto giudizio
Per i figli di migranti nati e cresciuti in Italia, il razzismo linguistico assume forme ancora più subdole. Questi ragazzi spesso parlano un italiano perfetto, ma mantengono accenti familiari, inflessioni ereditate, espressioni che tradiscono le loro origini culturali. Eppure, vengono costantemente messi alla prova.
“Ma tu parli benissimo italiano!”, si sentono dire spesso, come se fosse una sorpresa. Oppure: “Non hai neanche l’accento!”. Complimenti apparenti che, in realtà, sottendono l’idea che non sia normale per loro padroneggiare la lingua come gli “italiani veri”. E quando, per qualsiasi motivo, commettono un errore linguistico, questo diventa la conferma del loro presunto status di “estranei”.
Il razzismo linguistico e le donne
Le donne migranti sono particolarmente esposte al razzismo linguistico. Spesso costrette in contesti familiari dove hanno meno opportunità di frequentare corsi di lingua, o penalizzate da ruoli lavorativi che non favoriscono l’interazione linguistica, subiscono un doppio stigma: di genere e linguistico.
Le donne con difficoltà linguistiche vengono infantilizzate, trattate come incapaci di comprendere o di esprimersi, escluse dai processi decisionali che riguardano loro stesse e le loro famiglie. Le istituzioni raramente offrono percorsi di alfabetizzazione linguistica pensati per loro, aumentando il divario e la marginalizzazione.
L’effetto psicologico del giudizio costante
Vivere sotto il costante giudizio linguistico produce effetti psicologici pesantissimi. Chi subisce il razzismo linguistico sviluppa spesso ansia da prestazione linguistica: paura di parlare, di esporsi, di partecipare a discussioni pubbliche. L’errore diventa fonte di vergogna, il confronto con i madrelingua un terreno minato.
Molti interiorizzano il messaggio che il loro pensiero valga meno perché espresso in una lingua “imperfetta”. Questo porta spesso a forme di autoesclusione sociale, di isolamento, di rinuncia a percorsi educativi o professionali. Il razzismo linguistico, così, non limita solo la comunicazione, ma annienta l’autostima e le prospettive di vita.
Non è solo questione di “correttezza”
Il razzismo linguistico viene spesso giustificato con l’idea che “parlare correttamente” sia semplicemente un dovere per vivere in una società. Ma dietro la richiesta di “correttezza linguistica” si nasconde spesso la volontà di mantenere uno status quo culturale che esclude chi porta dentro di sé lingue, accenti, strutture mentali diverse.
La lingua italiana, come ogni lingua viva, è il risultato di mescolanze, contaminazioni, evoluzioni. Pretendere un’aderenza rigida a standard normativi serve solo a difendere confini identitari artificiali. Il problema non è la grammatica: è l’uso della grammatica come strumento di potere.
Come smantellare il razzismo linguistico
Combattere il razzismo linguistico richiede prima di tutto consapevolezza. Bisogna riconoscere che ogni persona ha il diritto di essere ascoltata e rispettata indipendentemente dal livello di padronanza linguistica. La comunicazione deve diventare uno spazio di incontro, non di giudizio.
Le istituzioni dovrebbero garantire servizi di mediazione linguistica diffusi, materiali amministrativi accessibili, percorsi di alfabetizzazione inclusivi. La scuola deve abbandonare l’ossessione per la correzione punitiva e valorizzare la diversità linguistica come risorsa educativa. I media devono smettere di ridicolizzare chi non parla in modo “perfetto”.
La ricchezza della diversità linguistica
Ogni inflessione, ogni errore, ogni accento porta con sé una storia, un percorso di vita, un’identità. La diversità linguistica arricchisce il tessuto sociale, offre nuove prospettive, amplia gli orizzonti culturali. Un’Italia capace di accogliere le sue molteplici voci è un’Italia più forte, più giusta, più umana.
Il razzismo linguistico è forse uno degli ultimi confini culturali che dobbiamo abbattere. Perché non c’è errore grammaticale che giustifichi l’esclusione di una persona dalla piena cittadinanza sociale.
Il diritto alla parola è un diritto umano.