Linguaggio razzista nei media: le parole tossiche che alimentano la discriminazione
Ogni giorno, milioni di persone in Italia vengono esposte a un linguaggio che sembra innocuo, oggettivo, persino “giornalistico”. Ma sotto la superficie delle parole scelte dai media, si annida una tossicità sottile e pervasiva che alimenta pregiudizi, stereotipi e discriminazioni. Non servono insulti espliciti per legittimare il razzismo: bastano titoli, espressioni e scelte lessicali che, reiterate giorno dopo giorno, sedimentano nel senso comune una visione deformata della realtà.
La responsabilità della narrazione mediatica
I media non sono semplici osservatori neutrali: sono costruttori di realtà. Le parole che scelgono di usare hanno il potere di amplificare o di ridurre i conflitti sociali, di umanizzare o di disumanizzare i soggetti di cui parlano. In Italia, il racconto mediatico su migranti, minoranze etniche, rom, musulmani, comunità LGBTQ+ è costantemente inquinato da una terminologia che rafforza l’idea del “diverso” come problema, pericolo, minaccia o eccezione.
Ogni volta che si parla di “emergenza migranti”, di “invasione”, di “ondate di profughi”, si sta già costruendo un frame mentale in cui chi arriva è automaticamente percepito come destabilizzante. L’uso della parola “clandestino” per definire persone che semplicemente sono in attesa di regolarizzazione alimenta l’idea di illegalità innata, criminalizzando intere esistenze prima ancora che vi sia alcun comportamento illecito.
Il razzismo normalizzato nei titoli
I titoli sono la punta dell’iceberg. In un’epoca in cui gran parte dell’informazione viene letta di fretta, spesso solo attraverso i titoli su social e aggregatori di notizie, la scelta delle parole di apertura è fondamentale. Titoli come:
- “Rissa tra extracomunitari in centro”
- “Rom ruba portafoglio, arrestato”
- “Baby gang di nordafricani terrorizza il quartiere”
non solo informano, ma costruiscono implicitamente equazioni mentali: extracomunitario = violento, rom = ladro, nordafricano = pericoloso. Queste associazioni, ripetute migliaia di volte, creano nella mente collettiva un’immagine deformata delle minoranze, trasformando la cronaca nera in pregiudizio sistemico.
Le etichette etniche inutili
Spesso nei resoconti giornalistici italiani viene specificata l’origine etnica o nazionale dei protagonisti di fatti di cronaca solo quando si tratta di persone straniere o di minoranze. È raro leggere “Italiano aggredisce passante” ma molto comune “Albanese aggredisce passante” o “Senegalese arrestato per furto”.
Questa asimmetria produce un effetto perverso: la cittadinanza italiana viene data per scontata nei casi negativi, mentre l’appartenenza etnica viene usata come aggravante per lo straniero. La ripetizione sistematica di queste etichette rafforza la percezione che l’immigrazione sia intrinsecamente collegata alla criminalità, mentre i reati commessi da italiani sono rappresentati come deviazioni individuali.
L’invisibilizzazione delle discriminazioni
Non è solo la scelta di alcune parole a generare tossicità. È anche il silenzio sistematico su altri aspetti. I media italiani raramente raccontano i dati sulle discriminazioni subite dalle minoranze. Le aggressioni razziste, i casi di islamofobia, i licenziamenti discriminatori, i soprusi subiti nei CPR, spesso non trovano spazio nei telegiornali o sui grandi quotidiani.
L’assenza di narrazioni sulle vittime del razzismo alimenta l’idea che il problema non esista o che sia marginale. Chi subisce il razzismo viene così doppiamente colpito: dalla discriminazione reale e dall’invisibilità sociale che ne consegue.
L’islamofobia linguistica nei media italiani
Una delle aree più evidenti di linguaggio discriminatorio nei media italiani riguarda l’islamofobia. Ogni volta che si parla di “terrorismo islamico” senza distinguere tra fede religiosa e atti criminali, si alimenta l’equazione islam = pericolo.
I media italiani spesso utilizzano termini come “jihadista” o “fondamentalista islamico” in modo approssimativo, ampliando così la paura verso qualunque forma di espressione musulmana, anche pacifica e moderata. L’associazione ripetuta tra islam e violenza legittima il sospetto generalizzato verso milioni di persone che nulla hanno a che vedere con atti terroristici.
Anche i simboli religiosi musulmani (come il velo o le moschee) vengono spesso presentati nei servizi giornalistici come “problemi di integrazione”, generando ulteriori stigmatizzazioni.
Abbiamo approfondito il ruolo dell’arte islamica nella lotta contro l’islamofobia nel nostro articolo Arte musulmana e resistenza: cultura, estetica e spiritualità contro i pregiudizi.
La costruzione del “noi” e del “loro”
Alla radice di tutto c’è una dinamica di separazione identitaria. I media italiani, anche inconsapevolmente, costruiscono narrazioni che distinguono tra un “noi” (gli italiani, i veri cittadini) e un “loro” (gli stranieri, i migranti, i diversi).
Questa narrazione binaria è estremamente pericolosa perché legittima politiche discriminatorie, restrizioni nei diritti di cittadinanza e sentimenti di ostilità verso chi non appartiene al “noi” immaginario. In questa divisione, i figli di immigrati nati e cresciuti in Italia continuano ad essere considerati “stranieri”, negando loro una piena appartenenza identitaria e politica.
Il ruolo dei talk show e del sensazionalismo
I talk show televisivi italiani hanno una responsabilità enorme nella diffusione di un linguaggio razzista mascherato da dibattito. Ospitare sistematicamente politici estremisti, opinionisti noti per le loro posizioni xenofobe, senza alcun contraddittorio serio, contribuisce a normalizzare discorsi d’odio.
Il linguaggio emotivo, la ricerca continua dello scontro verbale e il frame emergenziale su immigrazione e sicurezza alimentano paure irrazionali nella popolazione. Lo share diventa così più importante dell’equilibrio informativo e dell’etica giornalistica.
I social media e l’amplificazione tossica
Se i media tradizionali pongono le basi linguistiche della discriminazione, i social media le amplificano. Titoli distorti, notizie parziali, meme razzisti, disinformazione deliberata trovano nei social una cassa di risonanza potentissima.
I commenti sotto gli articoli online spesso diventano vere e proprie fogne di odio razziale, alimentando un clima costante di legittimazione del razzismo verbale. La debole moderazione di molte piattaforme aggrava ulteriormente il fenomeno.
Alternative possibili: un linguaggio inclusivo e responsabile
Non tutto è inevitabile. Esistono linee guida internazionali per un linguaggio giornalistico responsabile, che non significa censurare i fatti, ma raccontarli con accuratezza e senza alimentare pregiudizi. Tra le buone pratiche:
- Evitare etichette etniche quando non necessarie.
- Usare termini legali corretti (richiedente asilo, rifugiato, migrante, irregolare).
- Equilibrare la cronaca nera con la narrazione delle discriminazioni subite.
- Contestualizzare i fenomeni senza costruire allarmismi infondati.
- Dare voce ai diretti interessati.
In Italia alcune testate, soprattutto nel giornalismo indipendente e nelle reti antirazziste, stanno già applicando queste pratiche con successo.
La responsabilità collettiva
Il linguaggio dei media non è solo responsabilità dei giornalisti. È anche il riflesso delle aspettative del pubblico, dei meccanismi di clickbait e della pressione politica. Cambiare il modo di raccontare il razzismo richiede un lavoro culturale profondo che coinvolga scuole, università, editori, professionisti della comunicazione e cittadini.
Ognuno di noi consuma informazione ogni giorno. Essere consapevoli delle parole che leggiamo e pretendere un linguaggio più rispettoso e inclusivo è un primo passo per rompere il ciclo della discriminazione normalizzata.
Conclusione: le parole creano mondi
Il razzismo non nasce solo nei comportamenti violenti o nelle leggi discriminatorie. Nasce ogni giorno, silenziosamente, attraverso le parole che scegliamo e che accettiamo di ascoltare. I media hanno il potere di alimentare o di smontare i pregiudizi. Hanno la responsabilità enorme di non trasformare la cronaca in propaganda razzista mascherata.
Se vogliamo davvero combattere il razzismo in Italia, dobbiamo iniziare anche da qui: dalle parole che ogni giorno plasmano il nostro sguardo sul mondo.