Razzismo linguistico nei tribunali: la discriminazione che nasce dalla lingua
Il linguaggio giuridico non è solo un codice tecnico. Nei tribunali europei, il modo in cui si usano le parole, si formulano i quesiti e si traducono i concetti giuridici può determinare il destino di chi si trova sul banco degli imputati o davanti a un giudice. Quando si parla di razzismo linguistico nei tribunali, si fa riferimento a quelle dinamiche spesso invisibili che discriminano chi non padroneggia perfettamente la lingua del procedimento, chi proviene da contesti culturali diversi o chi si trova in posizione di vulnerabilità linguistica. In teoria, la giustizia dovrebbe essere eguale per tutti. In pratica, il tribunale diventa spesso uno spazio dove le differenze linguistiche amplificano le disuguaglianze sociali e culturali, soprattutto per migranti, richiedenti asilo, minoranze etniche e linguistiche.
Nei procedimenti penali o civili, la comprensione perfetta di termini giuridici complessi è fondamentale. Termini come “facoltà”, “presunzione”, “attenuante”, “omissione”, “nullità” richiedono conoscenze linguistiche elevate anche per chi parla fluentemente la lingua ufficiale. Per un cittadino straniero o un richiedente asilo, questi termini possono assumere significati incomprensibili o ambigui, mettendo a rischio il diritto alla difesa effettiva e al giusto processo.
Le difficoltà linguistiche non riguardano solo la lingua nazionale, ma anche i codici culturali impliciti dietro ogni ordinamento giuridico. Le testimonianze di migranti o rifugiati vengono spesso giudicate meno credibili a causa di imprecisioni linguistiche, difficoltà nel comprendere il formalismo delle domande o differenze culturali nell’esporre i fatti. I silenzi, le esitazioni o le risposte generiche vengono interpretate come incoerenze, quando invece spesso derivano dalla difficoltà di adattare la propria narrazione a un contesto linguistico e culturale distante.
Un aspetto particolarmente delicato riguarda l’uso degli interpreti in aula. Spesso gli interpreti disponibili nei tribunali non sono adeguatamente formati sul linguaggio tecnico-giuridico o non conoscono le varianti dialettali specifiche del richiedente. Piccole sfumature tradotte male possono alterare il significato delle dichiarazioni, modificare la percezione della credibilità dell’imputato o della vittima, e quindi influenzare pesantemente l’esito del processo. In alcuni casi estremi, la mancanza di interpreti adeguati porta perfino alla rinuncia di fatto alla difesa, con udienze svolte senza reale comprensione da parte dell’imputato.
In Italia, come in molti altri Paesi europei, i tribunali fanno spesso ricorso a elenchi di interpreti non sempre aggiornati o formati professionalmente. Le verifiche sulla reale competenza linguistica degli interpreti sono sporadiche. Questo problema diventa ancora più drammatico nei processi che coinvolgono migranti provenienti da aree linguistiche minoritarie, per i quali non esistono interpreti ufficiali disponibili. La scarsità di mediatori culturali qualificati aggrava ulteriormente il problema.
Il razzismo linguistico nei tribunali si manifesta anche nelle prassi degli interrogatori e dei colloqui investigativi. Le forze dell’ordine e i giudici formulano spesso domande complesse e articolate, aspettandosi risposte precise da soggetti che potrebbero non cogliere appieno tutte le sfumature linguistiche. Errori, contraddizioni o omissioni non intenzionali vengono interpretati come tentativi di elusione o bugie, mentre in realtà sono spesso il frutto della difficoltà nel comprendere appieno la domanda o nell’esprimere dettagli complessi in una lingua non materna.
La gestione delle testimonianze minorili di bambini stranieri o figli di migranti evidenzia ulteriormente queste criticità. I minori spesso subiscono un doppio svantaggio: da un lato la giovane età, dall’altro la difficoltà a muoversi in un sistema linguistico e culturale distante. In molti casi non vengono utilizzati specialisti linguistici adeguati né adattati gli strumenti di colloquio all’età e al background culturale dei minori coinvolti.
Questa discriminazione linguistica non è un dettaglio secondario: può decidere l’esito di procedimenti per asilo, espulsione, affidamento dei minori, diritto di soggiorno o processi penali. Un errore di comprensione può significare la perdita del permesso di soggiorno, il respingimento della domanda d’asilo, o addirittura una condanna ingiusta.
Anche nelle aule dei tribunali civili emergono le stesse dinamiche. Le pratiche per la tutela dei minori stranieri, per i ricongiungimenti familiari, per l’adozione o per l’affidamento temporaneo sono fortemente influenzate dal modo in cui vengono presentate le informazioni linguistiche e culturali al giudice. Molti genitori stranieri non comprendono appieno i procedimenti legali e non riescono a fornire una documentazione linguistica adeguata a sostenere il proprio diritto.
Dietro questa esclusione linguistica si nasconde una discriminazione sistemica che alimenta la sfiducia nelle istituzioni e nelle autorità giudiziarie. Per molte persone straniere, il tribunale non rappresenta il luogo dell’equità, ma uno spazio ostile dove il linguaggio diventa una barriera quasi insormontabile.
Per superare il razzismo linguistico nei tribunali occorre un profondo ripensamento delle pratiche istituzionali. Servono interpreti professionisti formati specificamente sul linguaggio giuridico e sulla mediazione culturale. È necessaria la formazione continua dei giudici e degli avvocati per renderli consapevoli delle barriere linguistiche invisibili. Occorre che le domande poste in aula siano chiare, semplici e adattate al livello linguistico di chi risponde. Servono protocolli rigorosi per valutare le testimonianze in maniera culturalmente informata.
Solo così il diritto potrà tornare ad essere uno strumento di giustizia egualitaria e non un apparato tecnico che riproduce meccanismi di esclusione e discriminazione. Il tribunale deve essere un luogo dove il principio dell’uguaglianza non si ferma alle parole scritte nelle leggi, ma viene tradotto in una pratica giudiziaria accessibile e rispettosa della diversità linguistica e culturale.