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domenica, 22 Giugno,2025

Il razzismo sul grande schermo: come il cinema racconta (male) le persone nere

Razzismo cinema: come il grande schermo ha costruito e diffuso stereotipi pericolosi

Il cinema è una macchina potente. Muove emozioni, costruisce immaginari, racconta storie. Ma troppo spesso quelle storie, quando riguardano le persone nere, sono raccontate male. O non vengono raccontate affatto.

Per anni il grande schermo ha ridotto uomini e donne nere a macchiette, a comparse, a caricature, spesso pericolose o ridicole. I neri nel cinema occidentale non erano protagonisti, ma strumenti: delirio comico, minaccia, oggetto di pietà. E anche quando si sono fatti spazio da protagonisti, spesso l’hanno fatto in sceneggiature pensate da registi bianchi, per un pubblico bianco, con messaggi rassicuranti per chi bianco lo è davvero.

Dallo schermo muto alla blackface: l’inizio del pregiudizio

All’inizio, il cinema era muto ma già profondamente razzista. Il celebre The Birth of a Nation (1915) di D.W. Griffith, considerato tecnicamente rivoluzionario, è anche uno dei film più apertamente razzisti della storia. Glorificava il Ku Klux Klan e rappresentava gli afroamericani (spesso interpretati da bianchi in blackface) come violenti, incapaci, animaleschi.

Non si trattava di errori narrativi. Era propaganda. Cultura che giustificava la segregazione, che alimentava la paura, che rafforzava stereotipi pericolosi. E per decenni, il cinema americano ha continuato su questa linea, anche quando lo faceva in modo meno esplicito.

La lunga ombra degli stereotipi: la domestica, il criminale, il salvatore bianco

Nel tempo, i ruoli per attori neri si sono moltiplicati. Ma non si sono liberati dalla gabbia degli stereotipi. La donna nera era spesso la domestica, la “mammy” protettiva ma subordinata, come in Via col vento. L’uomo nero era il criminale, l’hip hop gangster o il pusher di quartiere. Oppure, peggio, il personaggio che esiste solo per aiutare il protagonista bianco a crescere spiritualmente: il cosiddetto “magical negro”, come in Il miglio verde.

E poi c’è il classico del white savior: film in cui un bianco salva la comunità nera, ne guadagna gloria e riconoscenza. The Blind Side, Freedom Writers, Dangerous Minds, Green Book. Film che parlano di razzismo ma dal punto di vista dei non razzisti bianchi, che emergono come eroi morali.

Questi racconti sembrano positivi, ma sono rassicuranti solo per chi guarda da fuori. Per chi invece il razzismo lo vive, sono racconti distorti, comodi, addomesticati. Sono storie che parlano al posto delle persone nere, non con loro.

Quando il cinema diventa voce: registi neri, nuove narrazioni

Negli ultimi anni qualcosa è cambiato. Registi e registe nere hanno preso la macchina da presa e ribaltato la prospettiva. Spike Lee è stato un pioniere, con film come Do the Right Thing e Malcolm X, dove il razzismo è raccontato in tutta la sua crudezza. Ma anche Ava DuVernay (Selma, 13th), Barry Jenkins (Moonlight, If Beale Street Could Talk), Jordan Peele (Get Out, Us) hanno messo in scena il razzismo non come sfondo, ma come struttura. Come sistema.

Get Out, in particolare, è diventato un cult proprio perché mostra il razzismo sottile, mascherato da progressismo, in modo inquietante e potente. Un razzismo che non urla, ma che controlla, che domina con il sorriso. Una critica feroce al liberalismo bianco che si crede immune dai pregiudizi.

Il cinema italiano e l’invisibilità nera

E in Italia? Qui il problema è doppio. Non solo i ruoli neri sono quasi assenti, ma spesso le storie che riguardano il razzismo vengono raccontate solo in chiave emergenziale: il migrante che sbarca, il rifugiato che soffre. Pochissimi film italiani hanno saputo mettere al centro soggetti neri con dignità, complessità e protagonismo.

Alcuni documentari, come Iuventa, hanno tentato di raccontare l’accoglienza dal basso. Ma raramente si vedono protagonisti neri italiani, attori e attrici afrodiscendenti che raccontano sé stessi. Le storie dei ragazzi di seconda generazione, delle donne nere italiane, restano fuori dall’immaginario nazionale.

Eppure esistono. E si fanno sentire, anche attraverso cortometraggi, webserie, produzioni indipendenti. Ma restano ai margini del grande circuito cinematografico.

Microaggressioni e razzismo normalizzato: quando il problema è nei dettagli

Non servono scene esplicite di discriminazione per raccontare il razzismo. Molto spesso, il cinema lo perpetua in modo sottile: attraverso i dialoghi, le inquadrature, le dinamiche tra i personaggi. È qui che entrano in gioco le microaggressioni cinematografiche, quelle battute “innocue” che rafforzano stereotipi, quelle scene in cui il personaggio nero è usato solo come sfondo o comic relief, oppure le inquadrature che sottolineano la “diversità” invece della normalità.

Una donna nera che non ha un interesse romantico, ma solo un ruolo di supporto. Un uomo nero che, anche quando è protagonista, è sempre arrabbiato, minaccioso, fisicamente esagerato. Sono questi dettagli a costruire un immaginario sociale. Perché se le uniche storie che vediamo su uno schermo associano certe caratteristiche a un’etnia, la nostra percezione si forma su quella base. È razzismo passivo, ma non meno dannoso.

Per approfondire questo tema, puoi leggere anche l’articolo pubblicato su Antirazzismo.com: 👉 Quando il razzismo si nasconde nei dettagli: discriminazioni sottili nella vita quotidiana


Il ruolo della polizia sullo schermo: giustizia o violenza legittimata?

C’è un altro aspetto spesso trascurato: come il cinema rappresenta la polizia, soprattutto in relazione alle persone nere. Negli Stati Uniti, per decenni, il poliziotto è stato l’eroe buono, anche quando usava violenza. Ma quella rappresentazione ha spesso giustificato comportamenti reali gravissimi: arresti senza motivo, perquisizioni arbitrarie, abusi.

Film come Training Day, L.A. Confidential o End of Watch mostrano il lato duro della polizia, ma raramente dal punto di vista delle vittime nere. In Detroit di Kathryn Bigelow, invece, lo spettatore è costretto a vedere cosa significhi subire la brutalità razzista, senza filtri. Un caso raro.

In Italia, la polizia al cinema è spesso narrata come inefficiente o paternalista, ma quasi mai violenta o razzista. Eppure, le cronache raccontano ben altro. Basti pensare ai casi di Stefano Cucchi o Idy Diene. Ma il cinema italiano tace. Non per prudenza: per convenienza.


Quando il cinema cambia le regole: film che aprono gli occhi

Per fortuna, oggi ci sono film che sfidano questi meccanismi. Che mettono in crisi lo spettatore. Che lo costringono a rivedere il suo punto di vista. Ecco alcuni titoli che vale la pena vedere (e far vedere):

  • 🎬 Get Out (Jordan Peele, 2017): horror sociale che mostra il razzismo “liberal” e le microaggressioni mascherate da gentilezza.
  • 🎬 Selma (Ava DuVernay, 2014): racconta la marcia per i diritti civili guidata da Martin Luther King, evitando la retorica.
  • 🎬 Moonlight (Barry Jenkins, 2016): storia poetica e potente sull’identità nera, la mascolinità e l’omofobia.
  • 🎬 13th (documentario di Ava DuVernay): spiega come il sistema carcerario americano sia una continuazione della schiavitù.
  • 🎬 American History X (Tony Kaye, 1998): una riflessione sulla radicalizzazione del razzismo bianco e sul senso di colpa.
  • 🎬 Malcolm X (Spike Lee, 1992): biopic potente su uno dei leader più controversi e determinati della lotta per i diritti civili.

Oltre il film: il potere delle immagini per riscrivere il reale

Il cinema non è solo intrattenimento. È uno specchio, ma anche uno strumento. Può rinforzare i pregiudizi o può smontarli. Può dare voce a chi è sempre stato messo a tacere. Ma serve il coraggio di rompere lo schema.

Ogni volta che una persona nera viene raccontata come essere umano complesso, con desideri, contraddizioni, passioni — non come simbolo, non come vittima — allora il cinema compie davvero il suo lavoro. E aiuta chi guarda a vedere. A riconoscere. A mettere in discussione i propri filtri.

In questo senso, il cinema antirazzista non è solo un genere, ma una necessità. Perché il razzismo non sparisce spegnendo la TV. Ma si può cominciare ad affrontarlo scegliendo cosa guardare — e cosa pretendere da chi racconta.


👉 Leggi anche:
📌 I pregiudizi inconsci: come influenzano il nostro comportamento senza che ce ne accorgiamo
📌 Cos’è la microaggressione e perché non è solo una battuta

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