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domenica, 22 Giugno,2025

Cos’è la microaggressione e perché non è solo una battuta

Microaggressione razzismo: quando le parole feriscono anche se non sembrano offensive

“Non sembri straniero.”
“Parli bene per essere del Sud.”
“Voi neri siete tutti così allegri.”
“Non ho niente contro i gay, ma…”

Sembra poco.
Sembra una frase detta senza cattiveria, quasi per fare un complimento.
Eppure, in ognuna di queste frasi vive una forma di violenza sottile, nascosta dietro la maschera della normalità. Si chiama microaggressione.

Ed è proprio quel tipo di discriminazione che ti colpisce quando meno te lo aspetti, quando pensi di essere al sicuro, quando qualcuno dice qualcosa che non urla, ma punge.

Le microaggressioni sono quei commenti, gesti o atteggiamenti brevi e quotidiani, spesso non intenzionali, che trasmettono messaggi svalutanti o offensivi verso persone appartenenti a gruppi emarginati.

Non servono urla, insulti diretti, slogan neonazisti. Basta uno sguardo. Un sorriso storto. Una frase ambigua.

E proprio per questo fanno male: perché passano inosservate. Anche a chi le dice.

Non sono razzismo esplicito, ma lo alimentano. Non sono sessismo plateale, ma lo perpetuano.
Sono le basi invisibili della cultura discriminatoria.

Chi le subisce spesso non può nemmeno reagire. Perché se rispondi, sembri esagerato. Se ti offendi, ti dicono che “era solo una battuta”. Se provi a spiegare, ti accusano di vedere razzismo ovunque.

Ma chi le riceve ogni giorno, in ufficio, per strada, a scuola, lo sa: non sono dettagli. Sono ferite piccole e continue. Sono la carta vetrata del quotidiano.

E la cosa più triste è che molte microaggressioni arrivano da persone che si dichiarano “tolleranti”, “aperti”, “non razzisti”.
Lo fanno senza volerlo, certo. Ma il danno non cambia.
Perché anche l’inconsapevolezza è responsabilità.

Come abbiamo raccontato nell’articolo su pregiudizi inconsci: come influenzano il nostro comportamento senza che ce ne accorgiamo, spesso siamo portati a ripetere frasi che sembrano normali solo perché la nostra cultura le ha normalizzate.
Ma normale non vuol dire giusto.

Le microaggressioni sono proprio questo: piccole lame quotidiane, taglienti ma invisibili, che si accumulano col tempo e lasciano cicatrici profonde.


Le diverse forme di microaggressione

Non esiste un solo tipo di microaggressione.
Al contrario, esistono tante microaggressioni quanti sono i pregiudizi culturali che girano intorno a noi.

🔹 Razziali

“Ma da dove vieni veramente?”
“Posso toccarti i capelli?”
“Sei fortunato ad avere una pelle così esotica.”

Frasi dette con un sorriso, ma che rinforzano la diversità come qualcosa di strano, come se non fossi mai davvero parte del contesto in cui vivi.

🔹 Di genere

“Una donna in posizione di comando? Sarà sicuramente tosta.”
“Ma tu sei troppo carina per essere ingegnere.”
“Avete il ciclo o cosa?”

Spesso indirizzate alle donne in ambienti professionali o pubblici, sminuiscono competenze, emozioni e leadership.

🔹 Linguistiche e culturali

“Parli davvero bene per essere straniero.”
“Ah, ma allora sei italiano! Pensavo fossi dell’Est.”
“Il tuo accento è buffo!”

La lingua e l’accento diventano indicatori di distanza, strumenti per “marcare” l’altro.

🔹 Religiose

“Porti il velo? Ma ti obbligano?”
“Ah sei musulmano… quindi non bevi?”
“Non sembri ebreo.”

Domande che insinuano anormalità, che mettono sotto processo la fede dell’altro anche quando non richiesto.

🔹 LGBTQ+

“Ma chi è l’uomo e chi la donna nella vostra coppia?”
“Non sembri gay.”
“L’importante è che non ci provi con me.”

Sono le tipiche frasi eteronormative che svelano un bias profondo anche quando si finge tolleranza.


Microaggressioni: l’effetto accumulo

Una sola frase può essere tollerata. Ma quando ogni giorno qualcuno ti dice che “sei diverso”, che “sei strano”, che “non sembri del tuo paese” — allora inizia a farti male.

È il peso dell’accumulo.
Non è il singolo episodio. È la ripetizione quotidiana che ti logora. Ti porta a metterti in discussione, a camuffare chi sei, a nascondere una parte della tua identità per non sentirti escluso.

È un trauma a rilascio lento.

E spesso chi le riceve si trova davanti a un bivio: parlare e sembrare ipersensibile, o stare zitto e ingoiare.
Ed è così che le vittime imparano a tacere. Non perché non abbiano niente da dire, ma perché sanno che, comunque, nessuno vuole davvero ascoltare.


Perché “era solo una battuta” non basta

Dire “era solo una battuta” non è una scusa.
È un modo per sottrarsi alla responsabilità.

Il fatto che tu non volessi ferire, non cambia il fatto che l’hai fatto.
Il tuo intento non cancella l’impatto.

Quando si dice qualcosa di offensivo e poi si minimizza, si aggiunge un secondo danno: si nega il diritto dell’altra persona a sentirsi ferita.

Dire “sei troppo sensibile” o “non esagerare” è un modo per difendere il privilegio di non doverci pensare.


Come riconoscerle e come affrontarle

La prima cosa è ascoltare.
Se qualcuno ti dice che quella frase l’ha ferito, non difenderti subito. Chiediti invece: perché ha avuto quell’effetto su di lui/lei?
Forse hai detto qualcosa che non hai mai dovuto sentire rivolto a te.

Imparare a riconoscere le microaggressioni richiede consapevolezza e umiltà.
Serve mettere in discussione le frasi che abbiamo sempre detto, gli scherzi che sembravano innocui, le etichette che usiamo senza pensarci.

In secondo luogo, se sei testimone di una microaggressione, non restare in silenzio.
Anche solo dire “ehi, forse quella frase non era il massimo” può aprire uno spiraglio.

Il silenzio è complicità, anche quando non è intenzionale.


Microaggressioni e discriminazioni sottili: un sistema connesso

Come spiegato in discriminazioni sottili nella vita quotidiana, esiste una zona grigia tra la violenza evidente e quella impercettibile. È lì che si muovono le microaggressioni.

Sono comportamenti che da soli non fanno rumore, ma insieme costruiscono muri.
Sono commenti che non sembrano razzisti, ma che lo sono.
Sono espressioni che non ti urlano contro, ma ti mettono al tuo posto.

E spesso, proprio perché non sono vietate da nessuna legge, diventano accettabili socialmente. È lì il pericolo più grande.


Conclusione non marcata (ma chiara)

Non serve essere aggressivi per essere violenti.
Basta una frase sbagliata.
Una frase che sottintende: “Tu non appartieni qui.”
“Tu sei diverso.”
“Tu sei accettato, ma solo se ti comporti come voglio io.”

Le microaggressioni sono lo sfondo tossico di una società che non ha ancora imparato a guardarsi allo specchio.
Non urlano, ma scavano.
E finché le considereremo “solo battute”, continueremo a riderci sopra.
Anziché imparare da esse.

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