Microaggressioni: quando anche una domanda può ferire
“Ma da dove vieni davvero?”
“Parli benissimo l’italiano!”
“Non sembri straniero, davvero.”
“Che bel colore della pelle, sei esotico!”
Queste frasi, così banali e quotidiane, sembrano domande gentili, curiosità innocue. Eppure, per chi le riceve – ogni giorno, ogni settimana, a scuola, al lavoro, al supermercato – diventano pietre leggere che, sommate, pesano come macigni. Il loro nome è ormai chiaro: microaggressioni.
Non si tratta di insulti espliciti o gesti apertamente ostili. Le microaggressioni sono quei piccoli atti, parole, domande o allusioni che, nella loro apparente innocenza, portano con sé stereotipi, pregiudizi e, soprattutto, esclusione. Sono il modo in cui il razzismo, il sessismo, la discriminazione si fanno largo nelle pieghe della vita quotidiana, senza clamore, ma con una forza sotterranea che lascia segni profondi.
Microaggressioni: una definizione per chi non le vive
Il termine microaggressioni nasce negli Stati Uniti, nel contesto della psicologia e delle scienze sociali, per descrivere quelle “piccole” offese, quasi invisibili, rivolte a persone appartenenti a gruppi discriminati.
Non sono sempre intenzionali. Anzi, spesso chi le compie non si rende nemmeno conto di ferire. “Stavo solo chiedendo”, “era una battuta”, “sei troppo sensibile”. Ma chi le subisce sa benissimo che cosa significano: sentirsi sempre un passo indietro, sentirsi “altro”, fuori posto, messo in discussione nella propria identità.
Queste sono alcune delle forme più comuni di microaggressioni in Italia:
- Domande sull’origine, sulla nazionalità, sull’accento
- Complimenti ambigui (“sei troppo bella per essere africana”)
- Soprannomi legati a colore della pelle, etnia, religione
- Ironie su abitudini, cibo, famiglia, cultura
- Scetticismo sulla “vera” italianità
E poi, ovviamente, la domanda regina: “Da dove vieni davvero?”
Come se il luogo di nascita, il passaporto, la lingua non bastassero. Come se la pelle, l’accento, il nome, fossero una barriera insormontabile alla cittadinanza simbolica.
Quando una domanda è un confine
“Da dove vieni davvero?” non è mai una domanda neutra.
Per chi la pone, spesso è semplice curiosità, desiderio di conoscere una storia diversa. Ma per chi la riceve, è la conferma che non sarà mai davvero considerato “uno di noi”.
È un messaggio sottile, ma chiarissimo: “Non importa quanto tu sia nato qui, quanto parli bene la lingua, quanto tu sia integrato: tu rimani sempre altro, fuori, diverso.”
Non importa se è detta col sorriso, in buona fede, senza alcuna intenzione di ferire.
L’effetto non cambia.
La fatica di spiegare sempre, di giustificarsi, di essere “ambasciatori”
Chi subisce microaggressioni si trova spesso a dover educare, spiegare, sorridere per non sembrare permaloso, cercare di essere gentile anche quando vorrebbe solo dire basta.
Deve raccontare la propria storia, la propria famiglia, la propria “origine” come se fosse un esame, come se il diritto a essere accettato passasse dal rispondere correttamente a quella domanda.
Questa fatica non è mai riconosciuta. Anzi, chi prova a far notare il fastidio rischia di sentirsi accusato di esagerare, di “vedere razzismo ovunque”, di voler polemizzare.
Microaggressioni e salute mentale: una ferita invisibile
Gli studi psicologici sulle microaggressioni hanno dimostrato che, alla lunga, subire costantemente queste “piccole” ferite ha un impatto reale sulla salute mentale.
Crescono ansia, insicurezza, senso di inadeguatezza.
La fiducia negli altri si incrina.
Si può arrivare a sentirsi in colpa per il solo fatto di essere se stessi.
Le microaggressioni non sono solo parole. Sono confini.
Sono l’architettura del razzismo quotidiano, quello che non fa notizia, ma plasma le vite delle persone.
Un passo avanti: riconoscere, ascoltare, cambiare
Come si esce da questo schema?
Il primo passo è riconoscere che le microaggressioni esistono, che non sono esagerazioni, che fanno male davvero.
Il secondo è ascoltare le persone che le subiscono senza giudicare, senza difendersi, senza minimizzare.
Infine, è importante cambiare linguaggio, sforzarsi di non essere curiosi a spese dell’identità altrui, di non chiedere informazioni che non chiederemmo mai a una persona considerata “normale”, “italiana”, “bianca”.
Iniziare a dire:
- “Posso chiederti della tua storia, se ti va di raccontarla?”
- “Mi scuso se la domanda può sembrare invadente, non è mia intenzione farti sentire a disagio.”
Ed essere pronti ad accettare che qualcuno non voglia rispondere.
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Per approfondire il tema delle parole che fanno male, leggi anche il nostro articolo:
Le parole che non dovremmo più usare: guida antirazzista al linguaggio consapevole
Conclusione: la rivoluzione della gentilezza consapevole
Le microaggressioni non scompariranno da un giorno all’altro.
Ma possiamo scegliere di non essere parte del problema.
Possiamo allenarci a riconoscere i nostri automatismi, a chiedere “come stai?” invece di “da dove vieni?”, a vedere le persone prima delle categorie.
La lotta al razzismo inizia anche dalle parole più piccole.
Dalla capacità di guardare gli altri negli occhi e pensare: “Voglio che tu ti senta a casa qui, non che tu debba giustificarti.”
Forse allora, finalmente, nessuno dovrà più sentirsi straniero nella propria città.