Linguaggio discriminatorio: parole che feriscono più di quanto pensiamo
Ci sono parole che feriscono, anche quando non vogliono. Parole che abbiamo imparato da piccoli, assorbito dalla scuola, sentito al bar o nei titoli di giornale. Le ripetiamo, a volte con leggerezza, a volte con sarcasmo. Ma raramente ci fermiamo a chiedere: cosa stiamo davvero dicendo?
Il linguaggio è uno specchio della cultura. Ma è anche uno strumento per modificarla. Se continuiamo a usare le stesse parole di sempre, continueremo a pensare allo stesso modo. È per questo che parlare di linguaggio discriminatorio non è una fissazione da “politicamente corretti”. È un passo fondamentale per costruire una società più giusta.
Linguaggio discriminatorio: cosa significa davvero?
Non si tratta solo di insulti. Il linguaggio discriminatorio è fatto di etichette, metafore, stereotipi, battute. È il modo in cui definiamo l’altro, riducendolo a una categoria. È ciò che ci esce dalla bocca senza riflettere, perché è “normale” parlare così. Ma quella normalità è stata costruita su secoli di disuguaglianze.
Parlare di “zingari”, di “clandestini”, di “extracomunitari” non è neutro. Significa richiamare un intero immaginario fatto di paura, degrado, minaccia. Quando diciamo “sei proprio un terrone” o “questo è un lavoro da negri”, stiamo riproducendo una gerarchia. Quando diciamo a qualcuno “parli bene l’italiano”, stiamo insinuando che non dovrebbe.
Nel nostro articolo precedente, Lingua e razzismo: il potere delle parole che feriscono, abbiamo mostrato come il razzismo si annidi nei modi di dire e nelle microaggressioni. Ora proviamo a guardare in faccia alcune di quelle parole. E a capire perché dovremmo smettere di usarle.
Le parole che non servono più (e fanno danni)
“Zingaro”
Non è solo una parola. È un’etichetta storicamente connotata da disprezzo, criminalizzazione e paura. Le comunità rom e sinte esistono, hanno identità culturali specifiche. “Zingaro” è una parola che riduce, generalizza e trasmette un pregiudizio antico.
✅ Alternativa: persona rom, persona sinta
“Clandestino”
Una persona non può essere illegale. L’uso di questa parola ha effetti devastanti: disumanizza chi migra, lo cancella come soggetto di diritti. Nessuno è clandestino: semmai è privo di documenti, o in attesa di regolarizzazione.
✅ Alternativa: persona senza documenti, migrante irregolare (con attenzione)
“Extracomunitario”
Termine burocratico che in Italia è diventato sinonimo di “persona non bianca”. Non significa nulla, se non un’appartenenza vaga e stigmatizzante. Una persona del Giappone è extracomunitaria. Ma nella narrazione comune non è così che viene usato.
✅ Alternativa: persona straniera, migrante, cittadino di Paesi terzi
“Terrone”
Insulto razzista verso le persone del sud Italia. Spesso travestito da goliardia o autoironia. Ma è il riflesso di una lunga storia di disprezzo e disuguaglianza territoriale.
✅ Alternativa: nessuna. Non serve un sostituto per un insulto: serve eliminarlo.
“Di colore”
Un’espressione che evita il termine “nero” come se fosse una parolaccia. Ma non lo è. Le persone nere esistono, e nominarsi con chiarezza è parte della lotta contro l’oppressione. “Di colore” è un modo vago, imbarazzato, che sposta l’attenzione su un concetto confuso.
✅ Alternativa: persona nera
“Islamico”
Spesso usato come sinonimo di “musulmano”, ma con una connotazione minacciosa. “Islamico” suona più ideologico, più estremista. In realtà le persone seguono una religione: non sono una minaccia, né un’etichetta.
✅ Alternativa: persona musulmana
Parlare meglio per pensare meglio
Cambiare linguaggio non significa censurare, ma evolvere. Le parole sono vive, si trasformano con la società. E se vogliamo una società più equa, dobbiamo imparare a usare parole che non escludano, che non umilino, che non trasformino le persone in categorie pericolose.
Significa anche riconoscere che cambiare linguaggio può essere scomodo. Che possiamo sbagliare. Che possiamo sentirci a disagio. Ma è proprio in quello spazio di disorientamento che nasce il cambiamento vero.
Parlare in modo antirazzista è una scelta. Ma è anche un dovere etico. Le parole costruiscono mondi: noi scegliamo quali vogliamo abitare.