Lingua e razzismo: parole che costruiscono discriminazioni
Non intendevo offenderti, era solo un modo di dire.
Eppure le parole hanno un peso. Dicono molto più delle nostre intenzioni. Parlano per noi, anche quando crediamo di non dire nulla. E in quel parlare inconsapevole si nascondono a volte i pregiudizi più radicati. Il razzismo, spesso, non urla: sussurra. Passa dalle battute leggere, dalle espressioni comuni, da proverbi antichi. Si infiltra nelle frasi che diciamo senza pensarci, nei modi di dire che ripetiamo da sempre, nelle metafore che ci sembrano innocue.
Lingua e razzismo: quando le parole diventano strumenti di esclusione
Il legame tra lingua e razzismo è profondo, antico e spesso sottovalutato. Non si manifesta solo con insulti diretti o parole apertamente offensive, ma si nasconde nel linguaggio quotidiano, nei modi di dire, nelle abitudini linguistiche che ci sembrano normali.
Quando le parole discriminano
Esistono espressioni che usiamo ogni giorno senza renderci conto della loro carica violenta. “Lavorare come un nero”, “fare una zingarata”, “sei proprio un terrone”. Frasi pronunciate con leggerezza, senza cattiveria apparente. Ma che hanno radici storiche profondissime: l’associazione tra nero e fatica, tra zingaro e trasgressione, tra meridionale e ignoranza non è casuale. È il riflesso di una costruzione sociale che ha gerarchizzato i corpi, i popoli, le culture. E che continua a farlo, ogni volta che una di queste frasi viene normalizzata.
Dire “non intendevo” non è una giustificazione. Perché il linguaggio è uno strumento potente: costruisce realtà, disegna confini, attribuisce identità. E può ferire anche se non è pronunciato con odio. Per questo è fondamentale interrogarci sul modo in cui parliamo. Sulle parole che scegliamo. Su quelle che usiamo per descrivere chi ci sembra diverso da noi.
Microaggressioni: il razzismo silenzioso
Molte delle frasi più razziste non sembrano razziste. Non parlano di odio, ma di “sorpresa”. Non insultano direttamente, ma nascondono un giudizio profondo. “Parli bene l’italiano, da quanto sei qui?”, detto a una persona nera nata in Italia. “Sei troppo bella per essere africana”, detto con un sorriso. “Ma tu non sembri musulmana!”, detto con un tono amichevole. Tutte queste sono microaggressioni.
La microaggressione è una forma di discriminazione sottile, quotidiana, spesso involontaria. Ma non per questo innocua. Anzi: è proprio la sua normalità a renderla pericolosa. Perché chi la subisce viene messo continuamente in discussione, nella propria identità, nella propria appartenenza, nella propria umanità. E chi la pronuncia non se ne accorge nemmeno.
Ogni volta che stupiamo qualcuno perché parla bene l’italiano, stiamo dicendo che per noi è “strano” che una persona razzializzata sia italiana. Ogni volta che facciamo un complimento a metà, “sei bello nonostante…”, stiamo ribadendo uno standard bianco come norma implicita. Ogni volta che chiediamo “da dove vieni veramente?”, neghiamo la cittadinanza simbolica dell’altro.
Linguaggio dei media: razzismo istituzionale travestito da cronaca
Il linguaggio dei media è una delle principali fonti di riproduzione del razzismo linguistico. I titoli dei giornali parlano chiaro: “Clandestino aggredisce passante”, “Immigrato sorpreso a rubare”, “Rom uccide anziana”. Il soggetto è sempre definito per provenienza o appartenenza etnica, mai per individualità. Ma se il colpevole è italiano, allora diventa un uomo, un giovane, un trentenne. È una differenza semantica che crea gerarchie. Che associa la devianza a certe etnie, e l’umanità ad altre.
Lo stesso accade nei talk show, nei titoli sensazionalistici, nei commenti politici. Le parole come “invasione”, “ondata”, “sostituzione etnica” non sono neutrali: evocano paura, assedio, minaccia. E creano un immaginario collettivo in cui il migrante è sempre una figura disturbante, fuori posto, pericolosa. Anche quando la cronaca non lo dice esplicitamente, lo suggerisce con le scelte linguistiche.
Cambiare le parole per cambiare la realtà
Serve una rivoluzione linguistica. Una nuova alfabetizzazione collettiva che ci renda consapevoli del potere delle parole. Non si tratta di censura, ma di responsabilità. Scegliere un linguaggio inclusivo non significa parlare con il dizionario in mano. Significa evitare di riprodurre stereotipi. Significa usare parole che non umiliano. Significa non fare dell’identità dell’altro un’etichetta.
Possiamo dire “persona nera” invece di “di colore”, perché non è il colore a definire chi sei, ma è il razzismo che ti assegna una posizione. Possiamo dire “rom” invece di “zingaro”, perché il secondo termine ha una connotazione storicamente denigratoria. Possiamo evitare l’etichetta “clandestino”, perché nessuna persona è illegale. E possiamo chiederci sempre: quello che sto per dire, se fosse detto a me, mi farebbe sentire sbagliato?
Educare all’ascolto
Il cambiamento linguistico inizia dall’ascolto. Dalla disponibilità a mettersi in discussione. Non è facile: significa ammettere che forse abbiamo sbagliato, che certi modi di dire che ci sembravano innocui fanno male. Ma è un atto di giustizia. Perché il linguaggio è una questione politica. E cambiare il modo in cui parliamo è un modo per cambiare il mondo in cui viviamo.
Chi lavora a scuola, nei media, nella comunicazione, ha una responsabilità in più. Perché le parole che usa costruiscono immaginari. E un immaginario antirazzista non può nascere con un linguaggio che esclude, ferisce o disumanizza.
Parlare è un atto etico. E oggi, più che mai, è tempo di scegliere da che parte stare. Anche con le parole.