Un mondo disegnato per chi cammina dritto
Esistono privilegi che non si vedono finché non vengono tolti. Camminare senza pensare a scalini, salire su un autobus senza chiedere aiuto, leggere un modulo senza traduzioni, parlare in una riunione senza interpreti. Tutte cose che la maggioranza delle persone vive come scontate. Ma per chi vive con una disabilità, il mondo è pieno di barriere invisibili. L’abilismo è questo: la normalizzazione dell’esclusione. Una struttura sociale, culturale, istituzionale che assume la piena funzionalità fisica e mentale come standard, e tutto il resto come deviazione.
Cos’è l’abilismo (e perché non lo vediamo)
Il termine nasce nel mondo anglosassone (ableism) per descrivere una forma di discriminazione sistemica, analoga al razzismo o al sessismo, che colpisce le persone con disabilità. Non si tratta solo di insulti o barriere architettoniche. L’abilismo è la convinzione, spesso implicita, che chi è “abile” valga di più, meriti di più, debba essere il riferimento di ogni norma e misura. Non è solo nei comportamenti, è nei sistemi. È nei moduli che non prevedono alternative, nelle leggi che non contemplano eccezioni, nei progetti urbani che escludono corpi e menti diversi. È nella cultura del “ce la puoi fare se vuoi”, che ignora ostacoli reali. L’abilismo è la forma più diffusa e meno riconosciuta di discriminazione, proprio perché mimetizzata nel senso comune.
La violenza dell’inclusione forzata
La società occidentale ha imparato a “includere”. O almeno a dirlo. Ma spesso l’inclusione è una versione corretta dell’esclusione: ti includiamo, a patto che tu ti adatti. A scuola, i bambini con disabilità sono spesso parcheggiati in aule diverse, con educatori precari, mentre la classe prosegue. Nel lavoro, chi ha bisogno di adattamenti viene tollerato come un’eccezione fastidiosa. Nei luoghi pubblici, le rampe sono lì solo perché obbligatorie. L’inclusione, se non cambia la struttura, diventa paternalismo. Si aiutano i “poveri disabili” come gesto di carità, non come giustizia. L’abilismo non è solo mancanza di accessibilità: è l’idea che l’accesso sia un favore.
Linguaggio che esclude
Le parole costruiscono il mondo. E il linguaggio quotidiano è pieno di abilismo. Dire “sei un handicappato”, “sei ritardato”, “non ci arrivi”, “sei messo male”, non è solo offensivo: è naturalizzare la disabilità come fallimento. Anche espressioni apparentemente neutre come “normale”, “completo”, “integro”, rafforzano la logica abilista. I media, quando parlano di disabilità, usano due registri opposti: o la pietà, o l’eroismo. Le persone disabili sono raccontate come “ispirazioni”, “esempi di forza”, mai come cittadini comuni. Questo storytelling abilista, chiamato inspiration porn, riduce la persona alla sua capacità di “sorprendere i normodotati”. Il messaggio è chiaro: non sei come noi, ma se ti sforzi, potresti avvicinarti.
L’abilismo nei media
I film, le serie TV, i talk show mostrano raramente persone disabili come soggetti autonomi, complessi, protagonisti. Quando compaiono, sono marginali, oppure hanno ruoli stereotipati: il genio autistico, l’eroe in carrozzina, la vittima da compatire. Pochissimi attori o giornalisti con disabilità occupano spazi di rilievo. E quando lo fanno, vengono spesso ridotti alla loro condizione. L’abilismo nei media si manifesta anche nell’assenza: l’assenza di corpi diversi, di voci fuori norma, di esperienze complesse. Chi non si riconosce sullo schermo, interiorizza che il mondo non è fatto per lui.
La scuola abilista
Le scuole italiane, nonostante leggi come la 104, restano profondamente abiliste. Le barriere architettoniche sono ancora ovunque. Gli insegnanti di sostegno sono pochi, mal formati, spesso trattati come “servizio extra”. Gli studenti con disabilità vengono visti come problemi, non come parte integrante della classe. Le verifiche, le gite, i laboratori, tutto è pensato per un corpo standard. Chi ha difficoltà viene “aiutato”, ma senza trasformare il sistema. Un bambino cieco deve adattarsi a un libro cartaceo. Una studentessa sorda deve leggere le labbra perché non c’è interprete LIS. Questo non è supporto: è oppressione educata. E come abbiamo scritto nell’articolo sulle barriere architettoniche disabilità, anche l’accessibilità scolastica è ancora una promessa tradita.
Lavoro e selezione naturale
Nel mondo del lavoro, l’abilismo è palese. I CV con disabilità vengono scartati. Le aziende preferiscono non adattare le postazioni. I colloqui si basano su “soft skills” che presuppongono capacità comunicative, motorie, performative. La legge sul collocamento mirato è ignorata o aggirata. E quando una persona con disabilità viene assunta, è spesso relegata a ruoli marginali. Le riunioni sono inaccessibili, i turni rigidi, i ritmi incompatibili. L’abilismo in azienda si chiama “meritocrazia”: un sistema che premia chi può, e colpevolizza chi non riesce.
Vita sociale negata
L’accesso alla cultura, al tempo libero, allo sport, alla sessualità è ancora negato. I locali non sono accessibili. I musei hanno scale. I festival non prevedono spazi per carrozzine. I trasporti sono una barriera continua. Ma anche la vita affettiva è colpita dall’abilismo. Le persone con disabilità sono viste come asessuate, eterne bambine, incapaci di desiderare o essere desiderate. Molti non possono nemmeno accedere a una visita ginecologica o andrologica per mancanza di letti adeguati. Questo non è un dettaglio: è violenza sistemica.
Abilismo istituzionale
Le politiche pubbliche spesso ignorano la prospettiva delle persone disabili. I PEBA (Piani per l’eliminazione delle barriere architettoniche) sono pochi, non aggiornati, non rispettati. I fondi per l’assistenza personale sono scarsi. Le leggi parlano di autonomia, ma obbligano a vivere in strutture. L’assistenza domiciliare è precaria. E spesso, chi vive con disabilità deve dimostrare continuamente la propria condizione, passare visite, compilare moduli umilianti, essere “riconosciuto” da chi non lo conosce. Lo Stato non si fida di chi è fragile. Lo Stato abilista premia chi si adegua, non chi rivendica.
Intersezionalità abilista
L’abilismo non agisce da solo. Colpisce di più chi è anche donna, migrante, povero. Le donne disabili subiscono una doppia oppressione: come disabili, come donne. Subiscono più violenze, hanno meno accesso alla sanità, meno ascolto nei servizi sociali. Le persone migranti con disabilità sono invisibili. Non ci sono mediatori, interpreti, spazi accessibili nei centri d’accoglienza. Chi vive in povertà e ha una disabilità spesso rinuncia a tutto: lavoro, salute, vita pubblica. L’abilismo, quando si intreccia con altre forme di esclusione, diventa una trappola totale.
Il coraggio di dire: basta
Ma qualcosa si muove. In molte città italiane, persone con disabilità stanno costruendo reti, collettivi, iniziative. Non chiedono pietà, ma giustizia. Rivendicano spazi, diritti, rappresentanza. Denunciano l’abilismo culturale, esigono cambiamento. Alcune realtà sperimentano abitazioni inclusive, accessibilità radicale, progettazione partecipata. Le associazioni più avanzate rifiutano il linguaggio medico e propongono un modello sociale: la disabilità non è un problema individuale, ma un effetto della società escludente. E questo cambia tutto.
Una società antibilista
Costruire una società antibilista significa decentrare il punto di vista. Non si tratta solo di “integrare” chi è diverso, ma di cambiare le regole per tuttə. Rendere accessibili scuole, trasporti, siti web, media. Modificare i processi di selezione. Dare valore alla differenza. Accettare la vulnerabilità come parte della condizione umana. Una società antibilista non è perfetta. Ma è onesta. Riconosce la violenza implicita del “normale”. E lavora per eliminarla. Un gradino in meno. Una barriera in meno. Una voce in più.