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domenica, 22 Giugno,2025

Sotto il velo dell’odio: l’Islamofobia quotidiana in Italia

L’islamofobia in Italia: una discriminazione che si finge silenziosa

C’è un tipo di razzismo che non urla, non picchia, non insulta direttamente. Non sempre. A volte si limita a guardarti. A distogliere lo sguardo quando parli. A stringere la borsa più forte quando ti siedi accanto. A sospirare quando sali sull’autobus. È quello sguardo freddo e giudicante che accompagna le donne con il velo. Quella distanza automatica nei confronti di chi ha un nome arabo o una carnagione appena più scura. È l’islamofobia. E in Italia è ovunque. Invisibile e silenziosa, ma pervasiva. Non ha bisogno di una divisa o di un megafono per colpire. Le basta l’indifferenza.

La si incontra nei corridoi delle scuole, nei colloqui di lavoro, negli studi medici, nelle aule di tribunale. Si annida nei palinsesti dei talk show, tra i commenti dei social, dentro le battute “ironiche” al bar. L’islamofobia in Italia non è un’emergenza improvvisa. È un sottofondo costante, spesso alimentato da ignoranza, a volte da paura, molto più spesso da comodo silenzio.

Ogni volta che una donna musulmana viene licenziata perché porta il velo, ogni volta che un ragazzo viene fermato solo perché si chiama Mohamed, ogni volta che una moschea viene attaccata nei titoli dei telegiornali, il messaggio che passa è chiaro: “Non siete davvero parte di questo Paese”. Ma queste persone sono italiane. Nello scontrarsi ogni giorno con questa esclusione sistematica, l’islamofobia diventa una ferita collettiva che riguarda non solo le vittime, ma anche il tessuto democratico di una nazione che si dice laica, eppure discrimina sulla base della fede.


La narrazione dominante dipinge spesso l’Islam come minaccia, come cultura incompatibile, come religione retrograda. È un racconto costruito ad arte, che seleziona episodi di cronaca e li amplifica quando confermano stereotipi, ma ignora tutto il resto. Non si parla quasi mai delle famiglie musulmane integrate, degli insegnanti, dei medici, degli attivisti, delle donne che scelgono consapevolmente il velo come forma di identità, spiritualità e libertà.

Nel frattempo, il discorso pubblico alimenta un “noi contro loro” pericoloso. Politici che parlano di “invasione”, trasmissioni che associano Islam a terrorismo, opinionisti che pontificano sul burkini senza mai aver parlato con una donna che lo indossa. Così nasce e si rafforza un clima di sospetto generalizzato.


La scuola dovrebbe essere il primo argine contro la discriminazione. Eppure, anche lì, la realtà spesso tradisce le aspettative. Studentesse escluse dalle gite scolastiche perché “il velo dà fastidio agli altri genitori”. Temi in classe che chiedono agli studenti musulmani di giustificare attentati compiuti da terroristi che nulla hanno a che fare con loro. Insegnanti che storpiano nomi arabi con superficialità o, peggio, con sarcasmo. L’educazione civica che dovrebbe promuovere la convivenza si trasforma, per alcuni studenti, in una quotidiana lezione di esclusione.


Poi c’è il lavoro. Curriculum scartati senza nemmeno essere letti, solo per il nome. Colloqui che iniziano con un sorriso e si chiudono non appena si scopre la fede religiosa. Donne a cui viene chiesto di togliere il velo “per rispetto del cliente”. Uomini trattati come sospetti se rientrano tardi dalla pausa di preghiera. Persone competenti, formate, motivate, ma respinte da un mercato del lavoro che preferisce la rassicurante “italianità” all’inclusione vera.

Anche la sanità, dove l’etica dell’uguaglianza dovrebbe essere più forte, non è immune. Pazienti musulmani trattati con sufficienza, donne che non vengono ascoltate quando chiedono medici donne, cartelle cliniche annotate con commenti impropri. Il diritto alla salute si piega di fronte al pregiudizio.


Le istituzioni? In troppi casi sono assenti. L’Italia è uno dei pochi Paesi europei a non aver ancora riconosciuto ufficialmente l’Islam tra le religioni con intesa. Le moschee sono spesso osteggiate dalle amministrazioni locali, i centri culturali islamici trattati come minacce invece che come spazi di dialogo. L’imam è ancora visto come figura sospetta, il velo come simbolo da rimuovere, non da comprendere.

L’islamofobia diventa così una forma di razzismo istituzionale, legittimata da norme sbilanciate, da controlli selettivi, da un’applicazione della legge non sempre imparziale. Eppure, di tutto questo si parla pochissimo. I media preferiscono raccontare l’“allarme velo” piuttosto che approfondire i meccanismi di esclusione che colpiscono una parte crescente della popolazione italiana.


Le donne musulmane, in particolare, subiscono una doppia discriminazione: in quanto donne e in quanto musulmane. Il loro corpo diventa terreno di scontro simbolico. Se portano il velo, vengono accusate di essere sottomesse. Se non lo portano, non sono considerate “vere musulmane”. Se parlano, vengono zittite. Se tacciono, vengono ignorate.

Molte scelgono il velo con convinzione, come espressione di spiritualità, di dignità, di rispetto per sé stesse. Ma questa scelta viene sistematicamente letta attraverso la lente dell’Occidente: “Deve essere costretta”. “Suo marito glielo impone”. “Poverina, non è libera”. In pochi si fermano ad ascoltare. In pochissimi credono che una donna musulmana possa essere, al tempo stesso, credente, consapevole, libera e femminista.


C’è poi il livello sociale, quello che si manifesta ogni giorno nei luoghi comuni, nei bar, nei supermercati. “Tornate a casa vostra”. “Ma perché si vestono così?”. “Stanno rovinando la nostra cultura”. Tutte frasi che contribuiscono a creare una normalizzazione dell’odio, che rende la discriminazione accettabile, perfino giustificabile.

I social network, in questo, amplificano il problema. L’anonimato offre rifugio a chi diffonde messaggi islamofobi con violenza e sistematicità. I commenti sotto articoli di cronaca che riguardano musulmani sono spesso un campionario d’odio: generalizzazioni, insulti, inviti alla violenza. I contenuti moderati vengono spesso ignorati, mentre quelli che scatenano rabbia e divisione ricevono migliaia di like.


Eppure, c’è resistenza. Silenziosa, ma determinata. Associazioni musulmane che promuovono il dialogo interreligioso, giovani attivisti che raccontano la propria storia senza vergogna, docenti che introducono l’educazione interculturale nelle scuole, imam che aprono le porte delle moschee, ragazze che scelgono il velo come forma di affermazione e non di ritiro. Nonostante tutto.

Ci sono avvocati che lottano per il riconoscimento dei diritti religiosi, giornalisti che cercano di rompere la narrazione tossica, cittadini italiani di fede musulmana che ogni giorno vivono, lavorano, amano, studiano, partecipano alla vita pubblica, nonostante i muri visibili e invisibili che li circondano.


L’islamofobia in Italia esiste. È concreta. È quotidiana.
Ma raccontarla è un primo passo per disinnescarla. Dare voce a chi la subisce, rompere i cliché, ascoltare le storie vere, costruire una narrazione diversa: tutto questo è già un atto politico, un gesto di resistenza.

L’antirazzismo, se vuole essere reale, deve includere anche la lotta contro l’islamofobia.
Non si può combattere il razzismo a metà.
O lo si combatte tutto, oppure non lo si combatte davvero.

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