Il razzismo nei media: ciò che non si dice può essere più pericoloso di ciò che si dice
Non è solo una questione di parole sbagliate. Non è solo un titolo infelice o un servizio televisivo costruito male. Il razzismo nei media italiani è una assenza strutturale, una costruzione costante di una realtà selettiva, un silenzio che pesa tanto quanto un insulto. È ciò che non viene raccontato, ciò che viene tagliato, ciò che viene dato per scontato. È nel tono, nel modo, nella frequenza. Ed è una macchina che lavora ogni giorno, in tutte le redazioni, quasi sempre inconsapevolmente, ma sistematicamente. È un problema che non nasce con l’intento di discriminare, ma con l’abitudine di ignorare.
In Italia, i media – intesi come stampa, televisione, radio, piattaforme digitali – si presentano come i grandi narratori della realtà. Ma la realtà che raccontano è filtrata da chi la scrive, da chi la seleziona, da chi la confeziona. E se chi racconta è omogeneo – per etnia, per classe sociale, per formazione culturale – anche il racconto lo sarà. È così che intere comunità vengono rappresentate solo attraverso stereotipi, emergenze, marginalità. Se ne parla solo quando c’è un reato, un problema, un caso estremo. E nel farlo, si contribuisce a fissare l’immaginario collettivo.
Quante volte leggiamo o ascoltiamo frasi come “un marocchino è stato arrestato per spaccio”, oppure “un gruppo di extracomunitari ha aggredito un passante”? E quante volte invece leggiamo “un italiano ha ucciso la moglie”, o “un europeo ha truffato l’INPS”? C’è un doppio standard evidente, una costruzione narrativa dove l’italiano è individuo, mentre il migrante è gruppo, massa, minaccia. L’identità etnica viene evocata solo quando serve a marcare una distanza. E questo, giorno dopo giorno, costruisce un racconto razzista.
Il razzismo nei media non si manifesta soltanto nei servizi di cronaca nera, ma anche in quelli di costume, di politica, di economia. Pensiamo ai servizi sui centri di accoglienza. Quando si racconta di migranti ospitati in hotel, il messaggio che passa non è mai quello della dignità, del diritto, della necessità. È sempre accompagnato da polemiche, sospetti, cifre. Le immagini sono sempre le stesse: persone che mangiano, che non fanno nulla, che pesano sullo Stato. Raramente vengono mostrati per ciò che sono: individui con un passato, un presente e un futuro. Raramente parlano con voce propria.
E ancora: quante persone nere o di origine straniera vediamo in ruoli di competenza nei talk show? Quanti giornalisti neri ci sono nei quotidiani italiani? Quanti vengono intervistati non in quanto “stranieri”, ma in quanto esperti? Il problema della rappresentazione è anche questo: chi parla, chi viene interpellato, chi ha diritto di parola. In un paese con milioni di persone di origine straniera, l’informazione resta drammaticamente monocromatica. E questo non è neutro.
Nell’era digitale, il problema si amplifica. I social network hanno creato nuovi spazi di informazione, ma anche nuove zone d’ombra. Come mostrato nell’articolo 👉 Razzismo digitale e hate speech, le piattaforme sono piene di contenuti razzisti, diffusi in modo virale, mentre le notizie corrette o inclusive fanno molta più fatica a circolare. I media mainstream, a loro volta, si adattano al linguaggio dei social, cercano il click, il titolo sensazionalista, il contenuto che fa indignare. E nel farlo, spesso alimentano la tossicità.
Ci sono storie che non vengono mai raccontate. Come vivono le seconde generazioni? Come si sentono i ragazzi nati in Italia ma trattati da stranieri? Quanti sono i medici, gli avvocati, gli insegnanti neri o arabi o romeni in Italia? Quali sono le loro storie, le loro sfide, le loro conquiste? Nessuno le racconta. Perché il razzismo nei media italiani si alimenta anche dell’assenza di normalità. Finché una persona nera sarà chiamata a parlare solo di razzismo, finché una persona straniera sarà invitata solo a raccontare “il viaggio”, il racconto resta incompleto.
Le conseguenze di questa narrazione sono profonde. Il pubblico si forma un’opinione distorta. Si abitua a considerare “strano” ciò che dovrebbe essere normale. Si convince che l’invasione sia reale, che gli stranieri siano pericolosi, che il razzismo non esista. E così, quando accade un’aggressione razzista, si minimizza. Quando una vittima denuncia, si dubita. Quando si parla di diritti, si cambia canale.
Come abbiamo analizzato anche nell’articolo 👉 Fake news e razzismo, le notizie false o distorte sul tema dell’immigrazione e della diversità si diffondono con facilità perché trovano terreno fertile in una narrazione già orientata. Se il media parla di migranti solo in termini di problemi, è facile che il lettore creda a una bufala che rafforza quella visione. Il problema non è solo ciò che è falso, ma ciò che è credibile perché coerente con il pregiudizio.
Un esempio eclatante è quello della cronaca nera. I dati dicono che la criminalità non è aumentata in proporzione all’immigrazione. Ma l’informazione seleziona i casi più eclatanti, li presenta con enfasi, li ripete in loop. E questo crea un effetto di sovraesposizione. Le vittime italiane hanno nome, volto, storia. I colpevoli stranieri, anche. Ma quando la vittima è straniera e il colpevole italiano, spesso non se ne parla. Oppure si parla dell’episodio, ma non si dà rilievo all’identità.
Il razzismo nei media italiani non è necessariamente intenzionale. Ma è pervasivo. È il risultato di una formazione culturale omogenea, di una mancanza di diversità nelle redazioni, di una pressione commerciale che spinge verso la semplificazione. E il risultato è un paese che si racconta solo per metà. Un paese dove chi non rientra nel modello dominante resta ai margini, anche nella narrazione.
Ci sono eccezioni, certo. Giornalisti, programmi, testate che cercano di cambiare approccio. Ma sono voci isolate, spesso relegate alla nicchia. L’informazione di massa, quella che forma l’immaginario collettivo, resta orientata a un modello vecchio, miope, difensivo.
Come contrastarlo? Innanzitutto riconoscendolo. Parlare di razzismo nei media non è accusare un singolo giornalista. È analizzare un sistema. Poi servono politiche editoriali più coraggiose, che valorizzino la diversità anche nei team di lavoro. Servono corsi di formazione su bias culturali e linguistici. Servono nuovi linguaggi, nuove prospettive, nuove narrazioni.
E serve un pubblico più attento, più esigente. Che sappia distinguere tra informazione e propaganda. Che chieda storie vere, complesse, umane. Che non si accontenti dei titoli, ma voglia capire. Perché il razzismo si combatte anche così: pretendendo di essere rappresentati.