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domenica, 22 Giugno,2025

Fischi, insulti e silenzi: il razzismo che infetta gli stadi italiani

Razzismo nello sport – Il volto nascosto del tifo in Italia

Un coro parte dalla curva e rimbalza sui seggiolini vuoti dello stadio. È un suono che dovrebbe accompagnare l’agonismo, la passione, il tifo. Ma quelle parole – così cariche di odio – non esprimono amore per la squadra. Esprimono disprezzo per un colore della pelle. Per un accento. Per un’origine. Per un nome. È razzismo nello sport, e da troppo tempo fa parte dello spettacolo.

In Italia, il razzismo negli stadi è uno dei segreti più noti del nostro sistema calcistico. Lo conoscono i calciatori, lo temono i bambini con la pelle scura che si avvicinano al calcio, lo ignorano – o fingono di ignorare – dirigenti e istituzioni. È diventato quasi una componente ambientale: come le barriere, l’erba del campo, i cori “di incitamento”. Una presenza scomoda, ma tollerata.


Il problema non nasce oggi. Già negli anni ‘80 e ‘90, calciatori stranieri venivano derisi o emarginati. Ma con l’arrivo di nuovi fenomeni sportivi neri – da George Weah a Samuel Eto’o, da Mario Balotelli a Blaise Matuidi – le curve si sono trasformate in teatri di umiliazione.

Mario Balotelli, uno dei simboli più forti del razzismo sportivo in Italia, ne ha parlato apertamente più volte: “Se avessi la pelle bianca, la mia carriera sarebbe stata diversa”. I suoi gol non sono bastati a proteggerlo da quegli “uh uh uh” imitativi delle scimmie. Nemmeno la maglia azzurra della Nazionale ha fermato i cori. Nemmeno le lacrime.


La narrativa dominante, quella che si sente nei bar o nei forum sportivi, tende a minimizzare. “È solo tifo”, “è goliardia”, “è folklore”. Ma le parole hanno un peso, e quando sono rivolte contro un’intera identità, un’intera cultura, diventano armi.

Quanti giovani talenti smettono di inseguire i propri sogni per paura di quegli stadi? Quanti bambini subiscono discriminazioni già durante gli allenamenti nelle squadre giovanili? Quanti genitori si sentono costretti a spiegare a un figlio di 8 anni perché i suoi compagni lo chiamano “il negro”?


Le società sportive spesso si giustificano con la difficoltà di controllare le curve. Eppure gli stessi club riescono a vietare bandiere, a individuare ultras in tempo reale, a multare tifosi per aver lanciato una bottiglietta. Quando si tratta di insulti razzisti, però, il sistema si fa improvvisamente cieco.

Le multe? Ridicole. Le squalifiche? Episodiche. Le smentite? Isteriche. Raramente viene data una risposta all’altezza del danno. Il razzismo nello sport non è più solo un problema morale: è anche un problema di credibilità delle istituzioni.


Anche i media hanno una responsabilità enorme. Spesso preferiscono evitare il tema. Quando lo trattano, lo fanno come fosse un fatto “curioso” o “increscioso”. Mai un approfondimento serio, mai un’inchiesta strutturata, mai la voce diretta dei protagonisti discriminati.

È raro vedere un talk calcistico che affronti il tema razzismo con serietà. La narrazione sportiva in Italia è ancora ancorata a concetti vecchi, mitizzati, maschilisti, nazionalisti. Un’epica in cui il diverso non ha un ruolo se non quello del nemico da sconfiggere.


Ma non si tratta solo di serie A o B. La discriminazione è presente anche nei campionati minori, nei tornei amatoriali, nei campi di periferia. Ragazzi insultati dai genitori degli avversari, arbitri che non puniscono le offese, allenatori che consigliano ai ragazzi stranieri di “non reagire, tanto non serve”. In quel “non serve” c’è tutta la rassegnazione di un Paese che ha smesso di pretendere giustizia.

Eppure, esistono esperienze di resistenza. Squadre multietniche, tornei antirazzisti, associazioni sportive che usano il calcio come strumento di inclusione. Realtà che dimostrano come lo sport possa essere anche un veicolo di emancipazione.


In molte città italiane – da Milano a Palermo, da Bologna a Napoli – sono nate squadre autogestite da migranti, associazioni interculturali, allenatori volontari. Il calcio diventa linguaggio comune, ponte tra culture, risposta politica. In questi spazi, chi era escluso trova posto. Chi era bersaglio diventa protagonista.

Una di queste realtà è quella della squadra “Balon Mundial” a Torino, che organizza ogni anno una Coppa del Mondo dei migranti. Un evento che unisce sport, musica, cibo, incontri e storie. Un torneo dove ogni squadra rappresenta una comunità, e nessuno viene lasciato fuori per il colore della pelle.


Ma serve di più. Serve un cambio culturale profondo, che parta dalla scuola, dalla formazione degli arbitri, dalle società. Serve che le federazioni prendano posizione, che le squadre denuncino, che i tifosi smettano di giustificare l’odio con la passione.

Serve soprattutto che i media cambino linguaggio. Che si inizi a dire chiaramente che un insulto razzista non è un’opinione. Che non tutte le opinioni hanno lo stesso valore quando ledono la dignità umana.


Il razzismo nello sport non è un caso isolato. È lo specchio del razzismo nella società. Gli stadi sono solo il punto d’impatto più visibile. Ma dietro ogni coro razzista, c’è una cultura che lo rende possibile. Una cultura che ha bisogno di essere smascherata, raccontata, rieducata.

Il problema non è solo che ci siano tifosi razzisti. Il problema è che per troppo tempo li abbiamo lasciati parlare da soli. È ora che chi ama lo sport davvero – per ciò che rappresenta, per i valori che incarna – alzi la voce. E dica, senza più paura: non nel mio nome. Non nel mio stadio. Non nel mio Paese.

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