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domenica, 20 Luglio,2025

L’umiliazione è virale: il bullismo trasformato in spettacolo

Bullismo video virali: quando l’umiliazione diventa uno spettacolo condiviso

Quando la ragazza è scivolata nella mensa, rovesciando il vassoio pieno di pasta, non ci sono stati né sguardi preoccupati né mani tese. Solo risate, dita puntate e uno smartphone che ha iniziato a filmare. In meno di dieci minuti, il video era già in un gruppo WhatsApp chiamato “Best Failz”. Un’ora dopo, era su TikTok, con la didascalia: “Quando la fame è troppa e la gravità ti punisce”. Quindicimila visualizzazioni in mezza giornata. E il giorno dopo, per lei, tornare a scuola è stato come presentarsi nuda in mezzo alla folla.

Il bullismo ha cambiato forma. Non si consuma più solo nei corridoi o nei bagni senza telecamere. Oggi si nutre di spettacolo, viralità e pubblico. L’obiettivo non è più solo ferire: è far ridere gli altri. È umiliare pubblicamente. È diventare famosi per un istante, a spese di qualcuno che soffrirà a lungo.
Un meccanismo simile a quello raccontato anche nell’articolo “Sorridi o verrai preso di mira: il bullismo contro chi è ‘troppo diverso’”, dove le differenze personali diventano un bersaglio costante per chi vuole deridere.

C’è una nuova frontiera del bullismo che si annida nei social: si chiama umiliazione digitale spettacolarizzata. È una forma di violenza che si traveste da “intrattenimento”, ma ha le stesse radici tossiche del bullismo tradizionale. Solo che ora è amplificata da algoritmi, condivisioni e commenti pieni di emoji che ridono. L’odio ha un palcoscenico, e chi guarda senza dire nulla, ne diventa complice.

I video virali di scherni, insulti, cadute, prese in giro, aggressioni tra adolescenti stanno diventando normalità. Non solo: sono cercati, attesi, progettati. Si organizzano vere e proprie “trappole” per filmare il momento dell’umiliazione. A volte con il consenso della vittima, inconsapevole della portata che avrà. Spesso, senza alcun permesso.

E non si tratta solo di bulli. Il ruolo più pericoloso è quello dello spettatore silenzioso. Quel compagno o compagna che filma tutto. Chi commenta con frasi come “che scemo”, “imbarazzante”, “non sa stare al mondo”. Chi mette il like senza pensare che dall’altra parte c’è una persona, un minorenne, un cuore che si sta chiudendo in sé stesso.

Il “content” di oggi è il trauma di qualcuno di domani.

Eppure, agli occhi di molti adulti, è solo “goliardia”. Solo “ragazzate”. Non si rendono conto che un video virale può uccidere più di uno schiaffo. Può innescare isolamento sociale, crisi d’identità, autolesionismo. Può portare a non voler più andare a scuola, a chiudersi in casa, a pensare che la vergogna non finirà mai. Perché in effetti, non finisce: una volta che il video è online, non lo si può più fermare.

TikTok, Instagram Reels, canali Telegram, gruppi WhatsApp: sono pieni di questi video. E spesso, dietro la risata collettiva, c’è una macchina precisa che cerca la viralità per ottenere visibilità, follower, popolarità. In molti casi, persino scuole e famiglie tacciono, nel tentativo di non “fare scandalo”.

Ma fare silenzio significa lasciare spazio al prossimo video. E alla prossima vittima.

Esiste una responsabilità che va oltre l’azione del bullo: riguarda chi gira il video, chi lo condivide, chi non interviene, chi ride. Anche gli spettatori sono parte attiva del dolore. Anche chi non fa niente, fa qualcosa: normalizza.

Ma fare silenzio significa lasciare spazio al prossimo video. E alla prossima vittima.
Lo abbiamo visto anche in “Il branco digitale: quando il bullismo si organizza su WhatsApp e Telegram”, dove i gruppi diventano strumenti di violenza organizzata, tra risate e silenzi compiaciuti.

Ci sono ragazzi che oggi vengono ricordati solo per il video in cui inciampavano, piangevano, venivano derisi. Nessuno chiede loro come stanno. Nessuno si preoccupa di ciò che è venuto dopo. Il loro nome è diventato un meme. Una gif. Uno scherzo.

E allora viene da chiedersi: quando abbiamo deciso che la vergogna di qualcuno era intrattenimento per tutti?

La verità è che abbiamo lasciato troppo spazio all’algoritmo e troppo poco alla coscienza. Abbiamo lasciato che la popolarità si misurasse in condivisioni, non in empatia. E il bullismo ha colto l’occasione: ha messo su un costume da giullare, ha preso un telefono e ha detto “azione!”.

Ma possiamo fermarlo.

Possiamo insegnare a riconoscere il dolore dietro una clip da 15 secondi. Possiamo far capire che ridere di qualcuno non è mai divertente. Che chi guarda, filma, condivide è responsabile. Che esiste un modo di essere popolari che non passa per la distruzione degli altri.

Possiamo farlo a scuola, con progetti seri. A casa, parlando di rispetto e rete. Online, denunciando e segnalando contenuti offensivi. Possiamo farlo anche noi, oggi, scegliendo da che parte stare ogni volta che premiamo “play”.


📣 Hai assistito a episodi di umiliazione digitale o ne sei stato vittima? Raccontacelo. Scrivici a redazione.antirazzismo@gmail.com
Dare voce a queste esperienze può cambiare davvero qualcosa.

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