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domenica, 20 Luglio,2025

Sorridi o verrai preso di mira: il bullismo contro chi è ‘troppo diverso’

Bullismo e diversità: quando essere sé stessi diventa un rischio

C’è un momento esatto, spesso impercettibile, in cui un adolescente capisce di essere diventato un bersaglio. Non serve che qualcuno glielo dica apertamente. A volte basta uno sguardo, una risata soffocata, un silenzio improvviso quando entra in classe. Basta essere “troppo”: troppo silenzioso, troppo timido, troppo entusiasta, troppo lento, troppo creativo. Oppure troppo strano, troppo femminile, troppo intelligente. Troppo se stesso. In una scuola dove tutto è costruito per omologare, la diversità diventa colpa. E il bullismo, il suo tribunale.

Non sempre il bullo è violento. Spesso è sottile, benvoluto, persino brillante. Le sue armi non sono solo le mani: sono le parole, le espressioni, la complicità del branco. Il bullismo che colpisce chi è “diverso” si insinua nella vita quotidiana, in modo persistente e ripetitivo. Un ragazzo che balbetta viene imitato, una ragazza che non ama il trucco viene chiamata “maschiaccio”, un adolescente appassionato di anime giapponesi viene isolato perché “infantile”. Non ci sono insulti diretti. Solo risate, esclusioni, battute che “non devi prendere sul serio”. Ma ogni giorno, ogni ora, ogni ricreazione diventa un campo minato.

Il bullismo e la diversità si incontrano troppo spesso nel silenzio delle scuole. Nessuno vuole davvero parlare di discriminazione quando si tratta di ragazzi. “Sono solo bambini”, “stanno scherzando”, “è la scuola della vita”. In realtà è una scuola di oppressione. Lo abbiamo raccontato in “In silenzio tra i banchi: il bullismo verso adolescenti LGBTQIA+”, dove l’identità di genere o l’orientamento sessuale diventano motivo sufficiente per essere presi di mira, ridotti al silenzio o al terrore quotidiano.

Ma il problema è più ampio: non colpisce solo chi appartiene a una minoranza visibile. Colpisce chiunque non si adatti perfettamente alla norma dominante. Il ragazzo con il tono di voce più acuto, la studentessa che preferisce leggere piuttosto che uscire, il ragazzino neurodivergente che ha bisogno di routine. Le scuole troppo spesso non proteggono queste fragilità. Le nascondono. E in questo nascondimento cresce l’impunità di chi fa male.

Il bullismo contro chi è “troppo diverso” ha una caratteristica particolare: non è mai un episodio isolato. È una costante. Una costruzione di identità attraverso l’esclusione. Il bullo rafforza il proprio potere disumanizzando l’altro. Il gruppo si compatta attorno a chi offende. E la vittima interiorizza, giorno dopo giorno, l’idea di non valere, di dover cambiare, di essere sbagliata. A volte inizia a modificare il proprio comportamento per evitare il conflitto: ride alle battute su di sé, cerca di apparire più “normale”, rinuncia a passioni, parole, gesti. Si autodistrugge a piccoli pezzi, cercando di essere invisibile.

Questo tipo di bullismo è profondamente intersezionale. Non è un caso che spesso a subire siano persone già vulnerabili per altri motivi: neurodivergenze, abilità differenti, razze percepite come “altre”, genere non conforme, povertà, disabilità invisibili. È lo stesso meccanismo che abbiamo descritto in “Bullismo e disabilità: quando l’abilismo inizia a scuola”: la scuola diventa un ambiente ostile per chi non rientra nei parametri standard di comportamento, linguaggio, apparenza. E quando manca un supporto educativo forte, la diversità diventa il pretesto per l’aggressione.

Anche gli adulti spesso falliscono. Non per malizia, ma per ignoranza. Minimizzano, distraggono, deviano. “Sei troppo sensibile”, “non farti rovinare la giornata”, “ignora e vedrai che passa”. Ma non passa. Perché il bullismo strutturale non è fatto solo di gesti espliciti: è fatto di complicità passive, di regole scolastiche che ignorano la sofferenza, di programmi educativi che non parlano di empatia, diversità, rispetto profondo. È fatto di silenzi. E il silenzio, nei corridoi, pesa quanto mille parole.

Serve un cambio radicale. Serve parlare di educazione emotiva, serve formare gli insegnanti al riconoscimento delle micro-discriminazioni, serve creare spazi di ascolto reali. Serve che le vittime non vengano lasciate sole a combattere contro il branco. Perché il branco non è invincibile, ma è ben organizzato. E chi subisce spesso ha solo la propria voce, sempre più flebile, sempre più soffocata.

La diversità non è una colpa. Ma finché il bullismo continuerà a colpire chi non si adatta, il messaggio che passerà sarà l’opposto: che per essere accettati bisogna rinunciare a sé stessi. È questo il più grande danno. Non la battuta, non l’esclusione, ma la convinzione che per vivere serva nascondersi.

Abbiamo bisogno di scuole che sappiano dire ai ragazzi: “Va bene essere come sei”. Di ambienti che proteggano, che ascoltino, che reagiscano. Di educatori che sappiano riconoscere le violenze sottili, i sorrisi cattivi, i silenzi costruiti. Abbiamo bisogno di una società che non trasformi l’individualità in un bersaglio.

Perché se sorridi troppo sei strano. Se non sorridi, sei antipatico. Se parli bene, sei secchione. Se sei in difficoltà, sei un peso. Ma chi stabilisce le regole? Chi decide che la norma è una sola? Chi ha detto che la diversità è qualcosa da correggere?

Il bullismo contro chi è “troppo diverso” è una forma di violenza culturale, prima ancora che fisica. È la violenza dell’omologazione, del controllo, dell’annientamento del sé. È la violenza di una società che ha paura della complessità.

E la risposta non può essere che una: proteggere ogni forma di differenza come una risorsa, non come un errore. Perché la diversità non è un problema da risolvere. È un mondo da conoscere.

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