Bullismo e disabilità: l’abilismo silenzioso tra i banchi di scuola
Non servono parole pesanti per ferire. Basta uno sguardo evitato, una battuta sussurrata, un banco spostato. A scuola, per molti adolescenti con disabilità, il bullismo non arriva come un pugno. Arriva come una costante esclusione. Come l’eco di risate lontane, come l’indifferenza dei compagni, come la paura di dover spiegare ogni giorno il proprio corpo, i propri limiti, la propria normalità. E in questo silenzio, cresce l’abilismo. Invisibile, ma profondo. Quotidiano, ma devastante.
Il bullismo verso gli studenti con disabilità è una delle forme più sottovalutate di violenza scolastica. Non perché sia rara, ma perché spesso non viene riconosciuta. Si nasconde dietro frasi come “non voleva offenderti”, “era solo un gioco”, “non te la prendere sempre”. Ma per chi ha una disabilità — fisica, sensoriale, intellettiva o invisibile — quel “gioco” diventa una condanna. Una solitudine imposta. Una vergogna che non dovrebbe esistere.
Quando il corpo diventa motivo di esclusione
Per molti adolescenti con disabilità motorie, la scuola è un campo minato. Rampe che non ci sono, bagni inaccessibili, aule al secondo piano senza ascensore. Ma oltre agli ostacoli architettonici, ci sono quelli umani. Le occhiate impietosite. Le battute sulle stampelle. Il soprannome legato alla sedia a rotelle. Il rifiuto implicito di condividere il banco, la merenda, una squadra in palestra.
Non è la disabilità a ferire. È lo sguardo dell’altro. È l’idea che essere “diversi” significhi valere meno. È la mancanza di empatia travestita da normalità.
L’abilismo sottile delle parole che non si dicono
Ci sono disabilità che non si vedono. E proprio per questo, diventano bersagli più facili. Ragazzi con disturbi dell’attenzione, con autismo, con sindromi genetiche, con difficoltà cognitive. Ragazze con epilessia, con dolori cronici, con malattie rare. Il loro modo di muoversi, parlare o reagire viene spesso frainteso, ridicolizzato, escluso. Nessuno spiega. Nessuno ascolta. Nessuno protegge.
Si ride di chi “non capisce”. Si ignora chi resta indietro. Si parla sopra chi ha difficoltà a esprimersi. E intorno, il vuoto. L’idea che non serva includere, ma “sopportare”. Un’idea violenta. E profondamente abilista.
L’insegnante che volta lo sguardo
Il bullismo verso gli studenti con disabilità è raramente una questione tra pari. Spesso è l’ambiente che lo legittima. L’insegnante che non interviene. L’educatore che banalizza. Il dirigente che dice “è troppo difficile fare un progetto personalizzato”. Il sistema che ignora.
Quando uno studente viene preso in giro per come cammina, parla o si comporta, e nessun adulto interviene, quel gesto non è solo tollerato: è rafforzato. Diventa lecito. Normale. E la vittima impara che non vale abbastanza per essere difesa. Impara che deve adattarsi. O sparire.
Il branco non colpisce solo chi è fragile, ma chi è solo
Il bullismo scolastico è spesso un fenomeno collettivo. Non serve che tutta la classe sia violenta: basta che nessuno si opponga. E per molti studenti con disabilità, il primo ostacolo non è il corpo o la mente, ma la solitudine. Nessuno che si sieda accanto. Nessuno che li scelga a ricreazione. Nessuno che li difenda.
E così, la paura diventa abitudine. Il silenzio diventa difesa. E l’identità si costruisce intorno a ciò che manca: “io sono quello che non viene invitato”, “quella che non balla mai alla festa”, “quello che guarda senza partecipare”.
Quando la scuola mente: inclusione solo a parole
Le scuole italiane parlano spesso di inclusione. Lo fanno nei progetti, nei PTOF, nei documenti ufficiali. Ma nella realtà quotidiana, molti istituti non sono pronti. Mancano gli strumenti, la formazione, la volontà. Mancano le parole.
Si confonde l’integrazione con l’assistenza. Si pensa che basti un insegnante di sostegno per “risolvere il problema”. Ma il problema non è la disabilità. È lo sguardo degli altri. È la cultura che non riconosce il valore di ogni diversità. È l’ignoranza mascherata da buon senso.
Voci che resistono, corpi che reclamano spazio
Eppure, ci sono studenti che resistono. Che parlano. Che pretendono. Ragazzi che chiedono spazi accessibili. Ragazze che pretendono rispetto. Famiglie che lottano contro i silenzi. Educatori che si formano, che ascoltano, che costruiscono reti. Ci sono storie di amicizia, di accoglienza, di vera inclusione. Ma sono storie che vanno raccontate. E sostenute.
Perché ogni gesto di resistenza è un atto politico. Ogni corpo che si muove liberamente tra i banchi è una rivoluzione. Ogni parola che chiama le cose con il loro nome — bullismo, abilismo, esclusione — è un mattone per una scuola più giusta.
Non è disabilità. È discriminazione.
Il problema non è chi ha una disabilità. Il problema è chi lo discrimina. Chi lo ridicolizza. Chi lo ignora. Chi non fa nulla. Il bullismo verso gli studenti con disabilità non è un problema degli “altri”. È un problema nostro. Della scuola, degli adulti, della società.
E finché ci saranno studenti costretti a sentirsi sbagliati, costretti a nascondere i propri bisogni, costretti a sopportare in silenzio l’esclusione, vorrà dire che non stiamo educando. Ma solo perpetuando una violenza più sottile e più vigliacca.
È ora di guardare in faccia l’abilismo. Anche a scuola. Soprattutto lì.