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domenica, 20 Luglio,2025

In silenzio tra i banchi: il bullismo verso adolescenti LGBTQIA+

Bullismo LGBTQIA+: il silenzio che ferisce tra i banchi di scuola

Non sempre servono pugni o spintoni. A volte basta uno sguardo che si abbassa, una sedia spostata, una battuta sussurrata appena troppo forte. Basta un silenzio. Il bullismo verso adolescenti LGBTQIA+ spesso non ha la forma classica dell’aggressione fisica: è fatto di esclusione, parole che non si dicono, gesti che si ripetono ogni giorno fino a diventare normalità. E nella scuola italiana, questo silenzio è assordante.

Ci sono ragazze che non parlano mai di chi amano, ragazzi che si costringono a cambiare tono di voce, identità non binarie che si ritrovano a scegliere tra invisibilità o derisione. Ogni giorno. Tra i banchi. Nei corridoi. Sotto lo sguardo distratto di insegnanti che “non vogliono entrare nella vita privata” e compagni che “non fanno sul serio, dai”.

L’armadio scolastico: una prigione invisibile

Molti adolescenti LGBTQIA+ vivono la scuola come un luogo dove nascondersi. “Stare nell’armadio”, come si dice nel linguaggio queer, non è una fase passeggera: è una strategia di sopravvivenza. In classe si ride delle “checche”, si fanno imitazioni, si usano parole come “frocio”, “tr**a”, “lesbica” con tono di scherno. Le identità vengono trasformate in insulti. E se qualcuno prova a intervenire, la risposta è quasi sempre la stessa: “Era solo una battuta”.

Il risultato è che molti giovani queer imparano presto a cancellarsi. A evitare di parlare, a ridere forzatamente alle battute, a negarsi. E chi si dichiara, spesso lo fa pagando un prezzo altissimo: isolamento, bullismo, esclusione dai gruppi, insulti online, prese in giro persistenti.

Micro-aggressioni che diventano macigni

Il bullismo LGBTQIA+ non è fatto solo di episodi eclatanti. È un flusso continuo di micro-aggressioni quotidiane: “Tu sei una ragazza, quindi non puoi vestirti così”, “Hai le unghie fatte, ma sei un maschio?”, “Quella non è una famiglia normale”. Frasi che sembrano leggere, ma che colpiscono con la forza di una sentenza.

Molti adolescenti imparano a fare finta di nulla. Altri invece si chiudono. Alcuni si autodistruggono. I dati parlano chiaro: tra i minori LGBTQIA+, il tasso di depressione, autolesionismo e tentativi di suicidio è significativamente più alto rispetto ai coetanei cis-etero. E la scuola è uno dei luoghi dove questo dolore si costruisce giorno dopo giorno, senza che nessuno lo chiami mai col suo nome.

Docenti e personale scolastico: complicità del silenzio

“Non ci sono ragazzi gay nella mia classe.” Quante volte lo abbiamo sentito dire? Come se l’invisibilità fosse prova dell’assenza. Come se non dire, non vedere, non nominare fosse un modo per proteggere. E invece è un modo per lasciare soli.

Molti docenti non hanno strumenti. Non conoscono le parole giuste, non vogliono “creare problemi”, non sanno come affrontare i temi dell’identità di genere, dell’orientamento sessuale, del rispetto della diversità. Così si rifugiano nella neutralità. Ma la neutralità, in questi casi, è alleanza col bullo. Perché chi è vittima percepisce chiaramente l’assenza di protezione. E chi discrimina si sente legittimato.

Non bastano i cartelloni sulla diversità se poi, quando uno studente viene deriso per come si veste o per chi ama, nessuno interviene. Non bastano le giornate contro l’omofobia se poi i bagni gender free sono un tabù e l’educazione affettiva viene ignorata.

Non è sensibilità, è sopravvivenza

Chiedere che la scuola sia un luogo sicuro per le persone LGBTQIA+ non è una richiesta ideologica. È una necessità educativa, etica, civile. Nessun adolescente dovrebbe aver paura di andare a scuola per ciò che è. Nessun ragazzo dovrebbe pregare di ammalarsi pur di non affrontare il lunedì mattina. Nessuna ragazza dovrebbe fingersi etero per non essere presa in giro durante la ricreazione.

Il bullismo LGBTQIA+ è una ferita sociale. E finché continuerà a essere trattato come un problema marginale o “troppo delicato”, continuerà a mietere vittime silenziose.

Raccontare per rompere il silenzio

Eppure, qualcosa si muove. Ci sono adolescenti che trovano il coraggio di raccontare la propria storia. Prof che si formano, che imparano i pronomi, che parlano apertamente di identità. Ci sono scuole che sperimentano progetti inclusivi reali, non vetrine. Ci sono collettivi studenteschi che si organizzano per difendere i propri compagni. Ci sono famiglie che ascoltano, che accompagnano, che non minimizzano.

Le storie di resistenza esistono. Ma hanno bisogno di spazio. Di voce. Di alleati.

Un compito per adulti: esserci, davvero

Essere adulti responsabili oggi significa non voltarsi dall’altra parte. Significa formarsi, parlare, intervenire. Significa creare spazi sicuri, fare rete con le associazioni, ascoltare davvero gli studenti. Non bastano le buone intenzioni. Serve costruire una scuola dove l’identità non sia un rischio, ma una risorsa. Dove essere sé stessi non sia un atto di coraggio, ma una normalità.

Non è “sensibilità”. È giustizia. È diritto. È scuola.

E finché anche un solo adolescente LGBTQIA+ si sentirà solo tra i banchi, vorrà dire che non stiamo facendo abbastanza.

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