Bullismo sul lavoro: la violenza che gli adulti non sanno nominare
Non si alza la mano, non si ride sguaiatamente davanti a tutta la classe, non si spingono i compagni nel corridoio. Ma il bullismo c’è. È più sottile, più codificato, più elegante nei gesti ma feroce nella sostanza. Il bullismo degli adulti non è meno distruttivo, anzi: si consuma in silenzio dietro le scrivanie, negli spogliatoi, nei corridoi degli uffici, nei messaggi ignorati, nelle battute che sembrano scherzi, nelle porte che si chiudono. Eppure non se ne parla abbastanza. Perché si pensa che i grandi debbano “sapersela cavare da soli”, “farsi rispettare”, “non dar peso”, quando in realtà stanno solo sopravvivendo. Con fatica.
Il bullismo sul lavoro ha mille volti. C’è chi viene isolato sistematicamente dal gruppo, chi è ignorato in riunione, chi non riceve informazioni fondamentali per lavorare, chi è oggetto di sarcasmo continuo, chi viene umiliato davanti a colleghi e clienti. Poi ci sono le forme più strutturate: il mobbing verticale, quando un superiore usa il proprio potere per piegare, sfiancare, annientare psicologicamente un dipendente; oppure quello orizzontale, tra colleghi, dove il bersaglio è spesso la persona “troppo diversa”, “troppo fragile”, “troppo brava”. Ogni pretesto è buono, quando la cultura del rispetto è debole o inesistente.
Spesso, chi subisce bullismo sul lavoro non denuncia. Per paura. Paura di perdere il posto, paura di non essere creduto, paura di sembrare debole, lamentoso, inadeguato. E allora ingoia. Ingolla ogni giorno la frustrazione, il nodo alla gola, il senso di colpa. Perché una delle forme più insidiose di bullismo è far credere alla vittima che sia lei il problema. Che “se sei sempre escluso ci sarà un motivo”, che “se nessuno ti parla magari sei tu a isolarti”. Un rovesciamento colpevolizzante che rende ogni difesa più difficile, ogni uscita più lontana.
Il bullismo sul lavoro non è solo un problema di relazioni interpersonali. È una questione strutturale, culturale, istituzionale. Perché spesso accade in contesti che lo permettono, lo minimizzano, lo coprono. Ambienti in cui la meritocrazia è solo facciata, dove la gerarchia è usata come scudo per il controllo e l’umiliazione. E dove, spesso, chi segnala comportamenti tossici viene emarginato a sua volta. Non esiste solo il bullo: esistono complici silenziosi, superiori indifferenti, colleghi che “si fanno i fatti loro”. Esiste un intero sistema che permette la violenza, purché sia silenziosa, purché non dia fastidio all’estetica aziendale.
Le conseguenze sono devastanti. Ansia, insonnia, attacchi di panico, depressione, assenteismo, perdita di autostima. Molti abbandonano il posto di lavoro, spesso senza alternative, pur di sopravvivere. E in certi casi si arriva a gesti estremi, drammatici, che vengono liquidati come “fragilità individuali” e mai come esiti di un ambiente tossico. In Italia, il bullismo sul lavoro è ancora troppo spesso ignorato dal diritto e dalle tutele concrete. Chi denuncia rischia di trovarsi solo, o peggio, sotto osservazione. Serve una cultura diversa, serve una legge che riconosca in modo chiaro questo tipo di violenza. Serve credere alle vittime. Serve parlare.
Non è un caso che le persone più colpite siano spesso le stesse già vulnerabili in altri contesti: donne, persone LGBTQIA+, persone neurodivergenti, lavoratori con disabilità, persone razzializzate. Quando il bullismo incontra la discriminazione sistemica, si rafforza. È bullismo intersezionale: colpisce più forte, perché si aggrappa ai pregiudizi già sedimentati. In questi casi, è fondamentale non solo un intervento sul comportamento, ma anche sulla formazione, sul linguaggio, sulla cultura aziendale. Perché cambiare davvero significa riconoscere il problema e decostruirlo.
Un caso emblematico è quello dei servizi pubblici, delle aziende sanitarie, delle cooperative sociali: paradossalmente, luoghi teoricamente votati alla cura, al benessere, all’aiuto, in cui il bullismo può dilagare sotto forma di gerarchie opache, pressioni silenziose, esclusioni pianificate. Il ricatto morale è costante: “Qui si lavora per passione”, “Se non reggi il ritmo è perché non ci credi davvero”. E intanto, chi cade a terra viene lasciato indietro. A volte licenziato con pretesti sottili, a volte ignorato fino all’esaurimento. La violenza non serve urla: basta un silenzio strategico per far sentire qualcuno di troppo.
Serve una rivoluzione culturale anche nei luoghi di lavoro. Serve introdurre reali meccanismi di ascolto, figure terze e indipendenti, valutazioni anonime e trasparenti, formazione obbligatoria su abilismo, sessismo, razzismo, stereotipi inconsci. Serve smettere di premiare chi è “duro” e iniziare a valorizzare chi costruisce clima, sicurezza psicologica, inclusione. Serve denunciare anche quando fa paura. Anche quando sembra inutile.
Chi oggi subisce bullismo sul lavoro non è debole. Sta combattendo una battaglia solitaria contro un sistema costruito per zittire. Raccontare, scrivere, leggere questi articoli è già un atto di resistenza. Un primo passo. Perché come abbiamo già scritto in “In silenzio tra i banchi: il bullismo verso adolescenti LGBTQIA+”, il silenzio non protegge. Il silenzio isola. E il bullismo si nutre di silenzio.
E proprio come accade nelle scuole, anche nel mondo adulto serve alleanza. Serve rompere il branco, anche quello elegante e in giacca. Serve che qualcuno alzi la voce, che qualcun altro dica “basta”, che un altro ancora non rida alle battute. Serve umanità. Quella che molti hanno imparato a soffocare per “non passare da deboli”. Ma non è debole chi si espone: è debole chi nasconde la violenza dietro al potere.
Il bullismo non ha età. Solo maschere diverse. Ma le ferite, quelle, si somigliano tutte.