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domenica, 22 Giugno,2025

Italiani per nascita, stranieri per legge: la trappola dell’identità negata

Identità negata: nati in Italia ma trattati da stranieri

In un quartiere qualsiasi di una città italiana, un bambino si sveglia, si veste per andare a scuola, parla in dialetto con i compagni, tifa la Juve, gioca alla PlayStation e sogna di diventare astronauta. Ha otto anni. È nato in Italia. Non ha mai messo piede altrove. Ma secondo la legge italiana, non è italiano.

Il paradosso legale dell’Italia

L’Italia è uno dei pochi Paesi europei in cui vige ancora una legge sulla cittadinanza basata quasi esclusivamente sul principio dello ius sanguinis (diritto di sangue): si è italiani solo se lo sono anche i propri genitori. Non conta essere nati qui. Non conta parlare italiano. Non conta vivere, crescere, studiare in Italia. Conta solo il sangue. Se tuo padre e tua madre sono stranieri, anche se sei nato a Milano, Palermo o Torino, sei giuridicamente un “estraneo”.

Questo sistema crea decine di migliaia di giovani cresciuti in Italia che si vedono costretti a vivere in un limbo: stranieri in patria, italiani solo di fatto, ma non di diritto. Alcuni riescono a ottenere la cittadinanza a 18 anni, se rispettano condizioni rigide e assurde. Altri, per cavilli burocratici o mancanza di informazione, restano per sempre esclusi.

L’identità rubata

Vivere in Italia senza essere italiani non è solo una questione legale. È una ferita psicologica, una frattura identitaria. Chi nasce e cresce in Italia ma non ha la cittadinanza si trova a convivere con un continuo senso di esclusione, spesso invisibile agli occhi degli altri.

Quando a scuola si canta l’inno nazionale, lui canta anche. Ma quando c’è da compilare un modulo, deve chiedere ai genitori che tipo di permesso di soggiorno hanno. Quando gli amici parlano delle vacanze in Spagna, lui ricorda le file in Questura. Quando arriva il diploma, gli altri si iscrivono all’università con un click. Lui no.

L’identità negata diventa un’arma sociale silenziosa: disintegra il senso di appartenenza, incrina il rapporto con lo Stato, e produce frustrazione, rabbia, emarginazione. E a volte, questa rabbia si trasforma in abbandono: del sogno, della partecipazione, del rispetto per le regole di uno Stato che non ti riconosce.

Le trappole burocratiche dell’assurdo

La legge italiana prevede che un minore nato in Italia da genitori stranieri possa chiedere la cittadinanza al compimento dei 18 anni, ma solo se ha risieduto “legalmente e ininterrottamente” nel Paese fino a quel momento. Una formula apparentemente chiara, ma che nella pratica diventa una gabbia.

Cosa significa “legalmente”? Se un genitore ha dimenticato di rinnovare un permesso di soggiorno per pochi giorni nel 2009, quella interruzione può costare la cittadinanza al figlio. Se il Comune non ha registrato correttamente un cambio di residenza, il ragazzo rischia di non poter fare domanda. Se i genitori non sono informati, se il giovane non presenta domanda entro un anno dal diciottesimo compleanno, il diritto decade.

Non è uno Stato di diritto, è un quiz a trabocchetto. Uno Stato che chiede a un bambino di dimostrare legalmente qualcosa che non dipende da lui. Uno Stato che crea cittadini invisibili, trattati come clandestini pur vivendo tra noi da sempre.

Il trauma della maggiore età: diventare “illegale” a 18 anni

Il giorno del diciottesimo compleanno dovrebbe essere una festa. Ma per molti giovani nati in Italia da genitori stranieri è un momento di ansia, angoscia e burocrazia. A volte, anche di espulsione.

Per chi non ha i documenti in ordine, diventare maggiorenne significa perdere automaticamente il permesso di soggiorno per motivi familiari, senza diritto alla cittadinanza, senza alternative immediate. Da un giorno all’altro, un ragazzo o una ragazza può passare da studente modello a “irregolare”. E con questo nuovo status, non può accedere all’università, non può lavorare regolarmente, non può firmare un contratto di affitto. Non può vivere.

Il trauma è doppio: psicologico e giuridico. Dopo 18 anni di vita in Italia, ti scopri straniero. Un colpo secco all’identità e alla dignità.

La denuncia finale: cittadini senza patria, figli senza Stato

Questa è la realtà ignorata dell’Italia di oggi. Una realtà fatta di giovani cresciuti qui, che parlano in italiano, sognano in italiano, pensano in italiano, ma sono legalmente invisibili. Sono migliaia. Alcuni riescono a lottare. Altri mollano. Tutti portano addosso la stessa ferita: quella di uno Stato che li guarda, ma non li riconosce.

Cambiare la legge sulla cittadinanza non è solo una questione giuridica. È un atto di giustizia. È il riconoscimento di una verità sociale evidente: l’Italia è già cambiata. Questi giovani sono già italiani. Non è il sangue a definire chi siamo, ma la vita che viviamo, la lingua che parliamo, i valori che condividiamo.

Negare la cittadinanza è una forma raffinata di razzismo. Uno dei più insidiosi, perché travestito da burocrazia, nascosto tra le pieghe dei codici. Ma resta razzismo: è selezione, è esclusione, è negazione dell’uguaglianza.

Serve una legge nuova. Serve uno Stato che smetta di chiedere il permesso ai suoi figli per essere riconosciuti come tali. Perché chi nasce, cresce e vive qui, è già parte di questa comunità.

L’Italia, oggi, deve decidere se essere madre o matrigna.

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