Razzismo tra adolescenti: l’odio nascosto nei gruppi WhatsApp
Si nasconde dietro notifiche innocenti, dietro un messaggio con l’emoji del vomito, un audio sussurrato in dialetto, un meme con il volto di un compagno di classe photoshoppato in modo crudele. Non ha l’aspetto di un’aggressione fisica, non lascia lividi, ma marchia dentro. Il razzismo tra adolescenti oggi passa per le chat, per WhatsApp, per Telegram, per gruppi nati tra i banchi di scuola e cresciuti come mostri notturni negli smartphone di chi non osa uscire dalla norma. E chi non è bianco, chi ha un cognome “strano”, un accento, un colore di pelle diverso, è spesso il primo bersaglio. Ma non è il solo.
L’odio tra i messaggi: quando il razzismo si fa digitale
Nel silenzio delle camere da letto, mentre i genitori credono che i figli stiano semplicemente “chattando”, accade qualcosa di più subdolo: una costruzione collettiva dell’esclusione. Nei gruppi WhatsApp delle classi, a scuola, tra amici, prende forma una nuova forma di bullismo razzista: commenti che ironizzano sulle origini etniche, doppi sensi razzisti, gif con sottofondo di canzoni coloniali, riferimenti sottili ma letali. Il razzismo tra adolescenti non ha più bisogno del contatto fisico: trova un terreno fertile nella velocità, nell’anonimato relativo e nella complicità degli “spettatori silenziosi”.
Chi riceve questi messaggi spesso non parla. Cancella, prova a ridere, finge di non aver capito. Ma dentro si innesca un processo che lascia segni profondi: senso di colpa, auto-esclusione, perdita di autostima, silenzio. E intorno? Un deserto. Gli adulti non vedono, o non vogliono vedere. E quando scoprono qualcosa, è troppo tardi: la ferita si è già fatta identità.
Un gruppo per ridere: la banalità del male digitale
“Lo abbiamo fatto per ridere”. È la frase più ricorrente quando esplodono i casi nelle cronache. Succede a Roma, a Torino, a Palermo: gruppi su Telegram dove si deridono le ragazze velate, dove si diffondono video manipolati con filtri razzisti, dove si vota chi è “il più africano” della classe. La leggerezza si fa violenza. E l’ignoranza diventa complicità.
Molti adolescenti non hanno strumenti per riconoscere la violenza simbolica. Per loro è solo un linguaggio tra pari, un’espressione della goliardia. Ma la realtà è che il razzismo tra adolescenti oggi assume forme nuove, più difficili da intercettare: non è il pugno nel cortile, ma il messaggio inoltrato a trenta persone, la storia su Instagram con una frase ambigua, il commento lasciato sotto un post di TikTok.
Non solo razzismo: l’intersezionalità dell’odio
Nei gruppi digitali degli adolescenti, il razzismo si fonde con altri linguaggi di discriminazione: c’è l’abilismo, che prende di mira chi ha una disabilità, magari invisibile. C’è l’omofobia, il sessismo, la transfobia. Chi non rientra nel modello dominante – maschio, etero, bianco, normodotato, italiano di “quarta generazione” – diventa un bersaglio facile.
E spesso, la discriminazione è incrociata: un ragazzo di origine marocchina e dislessico, una ragazza nera e queer, un ragazzino asiatico e timido. Il bullismo diventa sistemico. Le identità multiple si trasformano in motivi per essere colpiti più volte, da più direzioni.
Scuola assente, genitori ciechi: chi protegge davvero gli adolescenti?
Gli adulti, nella maggior parte dei casi, arrivano dopo. Quando la chat è già stata cancellata, quando l’adolescente ha già smesso di dormire bene, di uscire, di voler andare a scuola. Gli insegnanti non sono formati per riconoscere le forme digitali della discriminazione. I genitori – anche quelli più presenti – non sanno dove cercare, come leggere i segnali.
Chi è vittima spesso non parla. Chi assiste ha paura di finire nel mirino. E così, il silenzio avvolge tutto.
Ci sono insegnanti coraggiosi, genitori attenti, psicologi scolastici competenti. Ma sono eccezioni, non sistema. Il sistema scuola – nella maggior parte dei casi – è impreparato, se non addirittura complice, perché normalizza battute razziste come “scherzi”, perché non interviene sulle dinamiche di classe, perché teme di “fare la morale”.
Una cultura da disinnescare: la responsabilità collettiva
Il razzismo tra adolescenti non nasce nei gruppi WhatsApp. Lì semplicemente prende forma. Nasce molto prima: a casa, quando si parla male dei “clandestini”; in televisione, quando si vedono solo neri poveri o delinquenti; nei libri scolastici, che non raccontano la storia coloniale italiana. Nasce nella politica che sdogana certe parole, nella stampa che parla di “baby gang nordafricane”, nei social dove il diverso è sempre “l’altro da cui difendersi”.
I ragazzi imparano. E ripetono. Con l’aggravante che oggi hanno uno strumento potentissimo in mano: la rete.
Resistere online: storie di chi non ci sta
Eppure ci sono adolescenti che si ribellano. Che escono dai gruppi. Che denunciano. Che creano contro-narrazioni, video su TikTok che spiegano perché una parola fa male, profili Instagram dedicati al linguaggio antirazzista, podcast autoprodotti dove si raccontano esperienze di esclusione e riscatto.
Ci sono minorenni che ne sanno più degli adulti. Che fanno educazione tra pari. Che si espongono, anche a rischio di diventare il prossimo bersaglio. E vanno sostenuti, ascoltati, amplificati. Perché sono loro il vero antidoto al razzismo digitale: la voce consapevole di una generazione che non vuole più tacere.
Educare alla parola, educare all’empatia
Serve un’educazione digitale antirazzista. Non basta dire “state attenti ai pericoli della rete”. Serve dire: “le parole feriscono, anche se dette in una gif”. Serve formare docenti, introdurre programmi di alfabetizzazione emotiva e linguistica, costruire alleanze educative tra scuola, famiglie, operatori sociali.
Serve parlare con gli adolescenti, non solo di loro. Non bastano i filtri, le app per controllare i figli, le telecamere. Serve fiducia, ascolto, esempio. Serve che anche gli adulti rivedano il proprio linguaggio, le proprie battute, le proprie “chat di genitori” dove spesso circolano le stesse dinamiche discriminatorie.
Conclusione? No, inizio di una nuova narrazione
Questo non è un articolo che finisce. È un invito. A raccontare, a intervenire, a non lasciare sole le vittime. A non lasciare impuniti i carnefici, anche se hanno 14 anni. A non giustificare tutto come “fase adolescenziale”.
Perché il razzismo non è mai uno scherzo. Nemmeno quando passa per una chat.