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domenica, 22 Giugno,2025

Razzismo istituzionale scuola: l’esclusione silenziosa comincia tra i banchi

Non è solo un insulto: è una struttura

Quando si parla di razzismo nella scuola italiana, si tende a immaginare episodi singoli: un insulto, una battuta infelice, un professore che “sbaglia”. Ma il razzismo istituzionale scuola non è questo. Non si esaurisce nel gesto individuale. È più profondo.
È un sistema. È nei regolamenti, nei programmi, nei moduli di iscrizione, nella burocrazia, nei consigli di classe. È nei presupposti impliciti di un’istituzione che non è stata pensata per includere chi è “altro”.

Il razzismo che si firma con inchiostro

Mariam, 11 anni, cittadina italiana, figlia di genitori egiziani, vive in Lombardia. Quando i suoi genitori compilano l’iscrizione alle medie, devono inserire la “nazionalità” dei genitori. Non la lingua parlata in casa, non eventuali difficoltà linguistiche: la nazionalità.

Questo dato, che non ha alcuna funzione didattica, viene usato da molte scuole per orientare gli alunni verso percorsi considerati “più adatti”.
E così, decine di ragazzi stranieri vengono spinti verso percorsi professionali o tecnici, anche quando hanno ottimi voti.
Il razzismo istituzionale scuola agisce in silenzio, con decisioni che sembrano “neutrali”.

I test d’ingresso che selezionano l’accento

In molte scuole italiane, per accedere ad alcune sezioni (come le classi a indirizzo musicale, scientifico o linguistico), si fanno test d’ingresso.
Apparentemente giusti. In realtà, strumenti di selezione sociale e culturale.

Chi ha famiglie italiane, alfabetizzate, con mezzi economici, si prepara. Chi è figlio di migranti, con genitori che parlano poco italiano, arriva impreparato. Il risultato? Le classi migliori sono bianche. Le “classi difficili” diventano etnicamente segnate.

L’orientamento scolastico è uno specchio rotto

Alla fine della terza media, i consigli di classe decidono quale percorso suggerire agli studenti. Non è vincolante, ma pesa. Molto.
Numerosi studi hanno dimostrato che gli alunni con background migratorio, anche con medie scolastiche alte, ricevono più spesso suggerimenti per istituti professionali.

Perché? Perché “non ce la fanno”, “non hanno famiglia che li segue”, “non parlano bene italiano”.
Non è valutazione: è pregiudizio travestito da consiglio.

I libri di testo parlano solo italiano

Prendi un qualsiasi libro di storia delle elementari. Parla dell’Impero Romano, del Medioevo europeo, della scoperta dell’America. Ma non c’è l’Africa, se non come spazio coloniale. Non c’è l’Asia, se non nelle guerre. Non c’è il mondo islamico, se non come nemico.

La geografia non mostra le migrazioni moderne. La letteratura ignora completamente gli autori italiani con background migratorio.
La scuola italiana racconta un mondo bianco, europeo, maschio.
Gli altri sono comparse. Non esistono. O esistono solo come “problemi”.

“Prof, ma io dove sono?”

Questa domanda l’ha fatta Yassine, 13 anni, nato in Italia da genitori marocchini. Dopo una lezione sulla storia dell’Italia unita, ha chiesto alla sua professoressa se la storia della sua famiglia sarebbe mai entrata in classe.

La risposta è stata: “No, non è nel programma”.

Il programma è neutro. Ma esclude. E chi è escluso, interiorizza: “Io non conto. Io sono fuori.”
Questo è razzismo istituzionale scuola: non solo offesa, ma assenza di rappresentazione.

Gli insulti tra i banchi: la punta dell’iceberg

I dati dell’UNAR segnalano ogni anno centinaia di episodi di razzismo a scuola, ma sono solo una minima parte.
La maggior parte resta non segnalata. Perché i ragazzi si vergognano, perché gli insegnanti minimizzano, perché i dirigenti non vogliono “creare problemi”.

“Era solo uno scherzo.”
“Ma non l’ha detto con cattiveria.”
“Non fare la vittima.”
Le frasi più ricorrenti quando un ragazzo nero o arabo denuncia un insulto.

La normalizzazione è il vero veleno. È lì che si sedimenta il razzismo.

L’assenza di rappresentanza

Quanti insegnanti con background migratorio conosci? Quanti dirigenti scolastici non bianchi ci sono in Italia?
Praticamente nessuno.
La scuola italiana è monocroma, anche nei ruoli di potere.
Eppure, oltre il 10% degli studenti ha origini straniere.
Come si può parlare di inclusione se chi insegna non riflette la società?

L’inclusione fatta a metà

Le scuole italiane parlano molto di inclusione. Fanno progetti, laboratori, attività. Ma troppo spesso restano episodici, non strutturali, come accade anche nell’inclusione delle persone con disabilità, trattata nel nostro approfondimento sulle barriere architettoniche disabilità.
L’insegnamento dell’italiano L2 è lasciato alla buona volontà. I mediatori culturali sono pochi, precari, mal pagati.
E quando ci sono tagli, si comincia sempre da lì.

Inclusione significa cambiare il sistema, non appiccicare una toppa su una falla.

Le scuole ghetto: quando la segregazione è legale

In molte città italiane, le scuole di quartiere con alta percentuale di alunni stranieri vengono considerate “scuole di serie B”. I genitori italiani iscrivono i figli altrove. Il risultato? Classi monoetniche, ghettizzate, senza risorse.
Questa è segregazione scolastica, ed è alimentata dallo Stato che consente l’autonomia scolastica senza regole per l’equità.

I numeri che non mentono

  • Più del 70% degli alunni con background migratorio finisce in istituti professionali.
  • Solo il 3% accede ai licei classici.
  • I tassi di dispersione scolastica sono doppi rispetto alla media nazionale.
  • Le bocciature sono il triplo rispetto agli italiani.

Questi dati non dipendono dalle capacità. Dipendono dal sistema.
Un sistema che non vede, non valorizza, non crede.

Le testimonianze che non trovi sui libri

“Mi hanno detto che col mio cognome non avrei fatto carriera.”
— Awa, 17 anni, nata a Torino.

“Alle superiori mi hanno mandato a fare il meccanico, ma io volevo studiare filosofia.”
— Omar, 19 anni, originario del Senegal.

“Quando parlavo in arabo con mia madre al telefono, i prof storcevano il naso.”
— Yasmina, 15 anni, Palermo.

Queste voci raccontano una scuola che discrimina senza nemmeno rendersene conto.

Non basta “non essere razzisti”

Essere neutrali in un sistema sbilanciato significa essere complici.
Una scuola davvero inclusiva deve essere attivamente antirazzista.
Significa:

  • Cambiare programmi
  • Formare docenti
  • Dare spazio alla storia degli altri
  • Valutare senza pregiudizi
  • Ascoltare davvero

Esperienze che cambiano le cose

In alcune scuole italiane si stanno sperimentando modelli alternativi:

  • Classi interculturali con curricoli plurali
  • Insegnanti di supporto formati sul tema razziale
  • Inclusione linguistica strutturata
  • Progetti in cui gli alunni raccontano la propria storia familiare

A Milano, Roma, Bologna, Napoli: piccole rivoluzioni che dimostrano che cambiare è possibile.

Educare alla pluralità

Ogni studente deve potersi riconoscere nella scuola. Deve sentirsi parte.
Educare alla pluralità non è solo una questione di giustizia: è una questione di qualità educativa.

Un’aula che accoglie, che riflette le voci diverse, è un’aula che prepara cittadini migliori.

La scuola che vogliamo

Vogliamo una scuola:

  • Che riconosca il razzismo istituzionale e lo combatta
  • Che racconti tutte le storie
  • Che includa tutte le lingue
  • Che non classifichi i corpi e i nomi

Una scuola dove nessuno chieda più:
“Prof, ma io dove sono?”

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