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domenica, 22 Giugno,2025

Chi salva e chi muore: razzismo nei soccorsi in mare

razzismo soccorsi in mare

Il mare è uguale per tutti, ma non lo è il modo in cui si viene salvati.
Nel Mediterraneo, il confine liquido tra la speranza e la morte, l’umanità non è distribuita in modo equo. Esistono vite che vengono soccorse, portate a terra, ascoltate. E vite che vengono lasciate alla deriva, ignorate, silenziate.
La differenza? Spesso non è la condizione di emergenza, né il rischio imminente. La differenza è il colore della pelle, la provenienza, il passaporto, il pregiudizio che si porta addosso chi sta per annegare.

Il razzismo nei soccorsi in mare è un tabù. Nessuno vuole parlarne apertamente, perché significherebbe ammettere che il razzismo non è solo una questione sociale o culturale, ma è un criterio di selezione della vita stessa. Significherebbe dire che ci sono vite che valgono meno. Che si può decidere chi merita di essere salvato in base a dove è nato. E che questa decisione non è una deviazione, ma una prassi.

Negli ultimi dieci anni, il Mediterraneo è diventato il cimitero più grande d’Europa.
Secondo l’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), più di 28.000 persone sono morte o disperse tentando la traversata dal Nord Africa all’Italia. Numeri spaventosi, ma lontani dalle prime pagine dei giornali. Soprattutto quando chi muore è nero, musulmano, senza nome.

I soccorsi in mare dovrebbero rispondere a una regola semplice e universale: la vita va salvata. Sempre.
Ma nella pratica, le operazioni di salvataggio si scontrano con una logica fatta di confini politici, ordini ambigui, omissioni strategiche e razzismo istituzionale.
Non si salva più chi ha bisogno. Si salva chi è autorizzato ad essere salvato.

Le navi ONG che da anni operano nel Mediterraneo centrale – come Sea-Watch, Open Arms, SOS Méditerranée – lo sanno bene. Ogni operazione di soccorso è una trattativa, un atto politico, una corsa contro il tempo ma anche contro i rifiuti dei governi.

Molte volte, le autorità marittime italiane – o maltesi – hanno ricevuto segnalazioni di imbarcazioni in pericolo, ma hanno scelto di non intervenire, attendendo che qualcun altro si prendesse la responsabilità.
E quel qualcun altro è quasi sempre una ONG.
Ma anche le ONG sono ostacolate: si ordina loro di allontanarsi, si nega l’ingresso in porto, si minaccia il sequestro dell’imbarcazione.

Questa politica del rinvio ha un impatto discriminatorio:
le persone che si trovano a bordo non vengono viste come naufraghi, ma come migranti irregolari. E questo trasforma un’emergenza umanitaria in un problema di ordine pubblico.

Se su quel gommone ci fossero stati turisti europei, o marinai italiani dispersi, le motovedette sarebbero partite subito.
Le unità SAR (Search and Rescue) si sarebbero attivate senza esitazioni.
I TG avrebbero aperto le edizioni con la notizia.
I ministri avrebbero twittato solidarietà.
Ma quando si tratta di uomini e donne provenienti da Eritrea, Nigeria, Sudan o Bangladesh, il salvataggio diventa opzionale.
Il tempo di attesa può durare ore, a volte giorni.
Nel frattempo, la barca si capovolge. Le vite scompaiono.

Il razzismo nei soccorsi in mare non è mai dichiarato, ma si vede nei numeri.
Le statistiche mostrano che le operazioni di salvataggio sono drasticamente diminuite negli anni, soprattutto quando le rotte sono percorse da migranti subsahariani.
Quando aumentano gli arrivi da Ucraina o da altri Paesi considerati “vicini”, i corridoi si aprono, i soccorsi si moltiplicano, le procedure si semplificano.

Il Mediterraneo non è solo mare. È uno specchio.
E quello che ci riflette è una gerarchia invisibile di chi merita di vivere.

Uno degli episodi più simbolici è quello del naufragio di Cutro, in Calabria, nel febbraio 2023.
Un barcone si spezza a pochi metri dalla costa.
A bordo ci sono oltre 180 persone, tra cui bambini, famiglie, donne incinte.
Solo 80 sopravvivono.
L’Italia viene travolta dalle polemiche: la Guardia Costiera era stata avvisata ore prima, ma non è intervenuta.
Chi ha dato l’ordine? Chi ha deciso che quel barcone non rappresentava una priorità?
E, soprattutto, se a bordo ci fossero stati cittadini europei, il ritardo sarebbe stato lo stesso?

Un’altra storia dimenticata è quella del caso Iuventa: la nave ONG tedesca, attiva nel salvataggio di vite umane, viene sequestrata nel 2017 e il suo equipaggio indagato per “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”.
Da allora, centinaia di vite che sarebbero potute essere salvate non lo sono state.
Ma nessuno ha indagato sulle omissioni di soccorso da parte dello Stato.
Il problema, ancora una volta, non è solo giuridico: è etico, razziale, sistemico.

Le missioni Frontex, ufficialmente incaricate di “controllare” le frontiere, svolgono più un ruolo di sorveglianza che di soccorso.
Quando intercettano barche in difficoltà, non le salvano, ma le segnalano alla Guardia costiera libica.
Quella stessa Guardia costiera che riporta le persone in Libia, nei centri di detenzione dove si pratica tortura, stupro, estorsione.

Il cerchio si chiude:

  • chi fugge non ha vie legali
  • chi prova la traversata rischia la morte
  • chi viene soccorso è bloccato
  • chi muore, non fa notizia

E tutto questo è possibile perché il sistema considera quei corpi sacrificabili.

Nel frattempo, l’Unione Europea finanzia e sostiene questa macchina della selezione.
Lo fa con memorandum, milioni di euro, accordi bilaterali con governi che violano i diritti umani, come la Libia, la Tunisia, l’Egitto.
Nonostante le denunce di Amnesty, Human Rights Watch e di moltissimi rapporti delle Nazioni Unite, l’UE continua a considerare questi Paesi come partner per la gestione dei flussi migratori.

Dietro a questa espressione neutra – “gestione dei flussi” – si nasconde una realtà fatta di respingimenti illegali, naufragi evitabili, morti taciute, discriminazioni normalizzate.
Si delegano i salvataggi a chi non salva.
Si chiudono gli occhi davanti alle prove di torture nei centri di detenzione libici.
Si classificano come “successo” i cali degli sbarchi, anche quando sono dovuti all’aumento dei morti.

Anche la comunicazione istituzionale partecipa al meccanismo.
Quando una barca affonda, il comunicato del Ministero dell’Interno parlerà di “tragedia”.
Ma quando una nave ONG salva 80 persone, la stessa voce istituzionale parlerà di “provocazione”, di “azione illegittima”, di “scontro diplomatico”.

Le parole costruiscono realtà.
E da anni, la realtà che viene costruita è quella in cui le ONG sono un problema e le morti sono inevitabili.
In cui chi salva viene criminalizzato.
E chi lascia morire, viene ignorato.

Il razzismo nei soccorsi in mare non ha bisogno di proclami razzisti.
Gli basta l’inazione.
Gli basta la burocrazia.
Gli basta il silenzio.

Ma non tutto è ombra. Esiste una rete di resistenza concreta, quotidiana, umana.
Sono volontari, operatori, marinai, capitane come Carola Rackete, equipaggi come quelli di Mediterranea, persone comuni che salgono su barche non per profitto, ma per coscienza.
Sono pescatori siciliani che tirano su bambini dall’acqua e poi vengono indagati.
Sono parroci, attivisti, giuristi che non vogliono rassegnarsi a questa logica della morte selettiva.

La loro voce è spesso isolata. I loro mezzi sono limitati. Ma il loro impatto è enorme.
Perché ogni corpo salvato, ogni sbarco completato, ogni processo evitato, è una vittoria contro il razzismo sistemico.
Non contro un’ideologia, ma contro una pratica concreta: quella di decidere chi ha diritto a essere salvato e chi no, in base alla razza, alla provenienza, alla percezione politica del suo corpo.


Il razzismo nei soccorsi in mare è forse la forma più crudele e meno visibile di tutte.
Perché non urla.
Non picchia.
Non spara.

Ma lascia morire.
E lo fa in silenzio, dietro ordini non scritti, protocolli vaghi, decisioni “tecniche”.
È un razzismo istituzionale, disumanizzante, che si nasconde dietro le sigle: SAR, VMRCC, CPR, hotspot.
Ma sotto quelle sigle ci sono volti, nomi, figli, genitori. Umani.


Cambiare questo sistema non sarà facile.
Richiede di ripensare le politiche migratorie, di fermare l’esternalizzazione dei confini, di smettere di finanziare governi criminali.
Ma soprattutto richiede di dire una cosa semplice e rivoluzionaria:

👉 Ogni persona che annega in mare ha lo stesso valore, la stessa dignità, lo stesso diritto a vivere — a prescindere dalla pelle, dalla lingua, dalla provenienza.

Chi viene lasciato morire non è invisibile.
È stato visto.
È stato tracciato.
È stato abbandonato.
E per questo, noi non possiamo restare in silenzio.

Perché il mare è uguale per tutti.
Ma finché il salvataggio dipenderà dal colore della pelle, la giustizia non galleggerà mai.

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